Francesco Correggia, docente all’Accademia di Belle Arti di Brera, ora in pensione, classe 1950, è originario di Catanzaro. Ha lavorato per il Ministero della Pubblica Istruzione: nelle sue parole a riguardo, soltanto amarezza. Nelle Sue opere la parola scritta si fonde con il colore: nelle più recenti, sempre di più. Secondo il maestro, la commercializzazione fa sparire la dimensione dell’opera. Abbiamo dialogato con lui per iscritto: anche nelle risposte alle domande c’è un connotato visuale, anche la parola è opera. Fin dagli anni Settanta, le parole da lui utilizzate nelle opere hanno la valenza di segni rituali. Un uomo rapido nei feedback e disponibile al dialogo, come ben sanno i Suoi studenti. Non soltanto al dialogo tra persone: anche al dialogo tra discipline. Quello che vale, in ogni ambito, è la curiosità. Ci parla, qui di seguito, dell’Associazione Zone.
Ha fondato di recente un’associazione culturale che si chiama Zone: può spiegarci nel dettaglio di che cosa si occupa?
ZONE, Studi di ricerca visuale, Teorie e pratiche dell’arte, è un’Associazione culturale indipendente no profit che nasce a Milano nel Gennaio del 2014. Fanno parte dell’Associazione Professori provenienti dall’Università e dalle Accademie di Belle Arti, Artisti, Filosofi, Economisti e Pensatori. Suo scopo primario è quello di far dialogare fra loro le diverse discipline del sapere contemporaneo dall’arte alla scienza, alla fisica teorica, alla sociologia, alla letteratura. ZONE è uno spazio di alterità che chiama a una responsabilità etica, discorsiva non solo dell’arte che in qualche modo deve riconsiderare la sua natura politica, ma anche della scienza, della società.
La finalità di ZONE è di attraversare le varie orbite del sapere contemporaneo troppo schiacciate dallo specialismo e dal tecnicismo per farle dialogare e arrivare così a superare lo schematismo di formule stereotipate e rigide che chiudono piuttosto che aprire alla ricerca. Bisogna fare in modo che si apra una conversazione costante fra le tecno scienze, le scienze umane e sociali, l’arte, l’antropologia; mondi che molte volte non riescono a comprendersi. In questo modo l’Associazione si propone di affrontare alcune tematiche urgenti come appunto la questione della crisi, la mancanza di vocabolari adeguati, l’indifferenza, la solitudine, ma soprattutto essa intende stimolare un atteggiamento critico e al contempo generoso ed etico. Ciò significa aprire uno spazio pubblico sulle cose dell’arte come momento di un cambiamento possibile, di un ricomprendere e al contempo di un aprirsi al mondo in un agire consapevole. L’intento di ZONE, più che ispirarsi a un progetto utopico, meta intesa come puramente ideale e non effettivamente raggiungibile, esprime una contingenza, una necessità, un modo di sopravvivere alla sciagura, ad una dimensione di disgregazione. Ancora di più essa persegue lo scopo di rispondere a una commercializzazione a tutto campo dello spirito, del valore, della vita che ha fatto sparire la dimensione dell’opera e lo stesso rapporto con il pubblico. In questo senso ZONE è un territorio di confronto, di teorie e pratiche, una zona fatta di tante altre zone del mondo della cultura contemporanea.
Per secoli l’artista si è rivolto alla natura come fonte d’ispirazione: in che modo il rapporto dell’artista con il mondo diventa sostenibile?
Con l’arte moderna a partire da Cézanne l’artista non si rivolge più alla natura nel senso della “mimesis” ma la interroga, la indaga. E’ la stessa arte che si domanda intorno alla sua natura, al suo senso e alla sua dimensione ontologica. L’artista tenta una nuova avventura poetica. Il suo compito non consiste più nel rappresentare ciò che vede o ciò che si osserva dalla natura o dalla stessa realtà, ma consiste nell’analisi degli stessi processi della visione e del vedere e ancora di più essa si pone come una questione interpretativa del mondo. Lo stesso rapporto con la natura riguarda ora una nuova urgente responsabilità che si sposta di continuo intorno ad alcuni temi che riguardano l’uomo contemporaneo e l’ambiente in cui vive. Il terreno in cui si muove ora l’arte è quello più propriamente pubblico, sociale, discorsivo, ecologico e quindi teorico e politico. Nel rivolgersi al mondo l’arte fa mondi, rinnova il senso dello stare nel mondo, senza per questo perdere la sua dimensione metaforica e simbolica.
Come le discipline del sapere possono dialogare nel ventunesimo secolo, tempo della convergenza informatica?
Purtroppo le discipline del sapere contemporaneo non dialogano fra di loro e neppure si confrontano sui temi della cultura contemporanea. Siamo in una situazione dove occorre mettere insieme piuttosto che separare; relazionarsi in una dimensione di ricerca di orizzonti comuni pur nelle differenti modalità dell’agire artistico, poetico, letterario, scientifico. Allargare i campi tematici della ricerca significa proprio affrontare insieme questioni importanti per il futuro del pianeta e del suo ecosistema. Ciò si può fare creando più occasioni di confronto e di dialogo in una prassi culturale dinamica, relazionale, attenta al rapporto con l’altro, con altri e con altro: l’ambiente, la storia, il territorio, il paesaggio.
Descriverebbe il rapporto con giovani artisti presso l’accademia delle Belle Arti di Brera?
Debbo confessare che il mio rapporto con i giovani studenti di Brera fino a qualche anno fa magnifico è finito per incrinarsi più per mia stanchezza che per il numero e la frequenza degli studenti iscritti ai miei corsi e non solo ma anche il mio rapporto con l’Accademia come istituzione formativa e didattica è finito per esaurirsi. Il mio ultimo tentativo è stato quello di creare una struttura di ricerca che fosse in grado di avviare il terzo livello della formazione, e cioè un Dottorato di ricerca in Antropologia dell’immagine e problematiche del contemporaneo. Il progetto di dottorato ha avuto riconoscimenti importanti proprio attraverso il CRAB (Centro di ricerca di Brera da me coordinato dal 2002). Tutto era pronto per il suo avvio, ma qualcuno al ministero (La direzione generale dell’Alta formazione artistica a cui appartengono le Accademie) l’ha messo nel cassetto, il che non è una metafora, ma un fatto vero. Non posso qui fare la storia di questa amara vicenda, dico soltanto che ho preferito mettermi in pensione in considerazione del mostruoso declino di tali Istituzioni . A tale proposito rimando ad un mio testo su la stampa in web dedicato alle Accademie italiane.
Che cosa la stimolava della sua attività di docente?
Mi stimolavano gli studenti, la discussione, la conversazione sui temi dell’arte, sul concetto di opera e sullo stesso modo di fare didattica. Il mio insegnamento non ha fatto mai differenza fra pratiche e teorie, discussione e lavoro, progetto e opera. Questo mondo purtroppo sta per sparire. La grande presenza di studenti cinesi, orientali e medio orientali, che non conoscono bene la lingua italiana, se da una parte ha portato nuova linfa alle Accademie, dall’altra ha fatto sparire quell’universo, di discussioni, confronto fra linguaggi e modi di operare differenti nonché quelle sollecitazioni culturali su cui si fondavano le discipline dell’arte.
Quali sono i punti di forza e di debolezza dei giovani emergenti?
E’ proprio la locuzione di giovani emergenti che è fallace. I giovani che tentano di entrare nel sistema dell’arte non si accorgono che questo sistema è imploso, non esiste. Ciò che vogliono oggi i giovani ma anche qualcuno non più giovane, per fortuna non tutti, è quello di essere presenti in una mostra, in una galleria. Non si fanno domande né esprimono una tensione, una presa di posizione. Così non si è artisti ma solo artieri. Che tristezza!
Che cosa ricorda della sua attività presso il ministero della Pubblica Istruzione?
Solo burocrazia, incomprensione e ignoranza sulle arti visive diffusi a tutti i livelli. Ricordo solo esperienze amare, delusioni, arrabbiature. Purtroppo.
Ci parli delle Sue performance degli anni Settanta e di come in esse si estrinsecava (e si estrinseca) il rapporto uomo-natura.
Negli anni settanta era molto forte il mio interesse verso l’antropologia. Dal 1975 al 1982 ho eseguito una serie di performances sul territorio (scritture e segni rituali). Si trattava di interventi in cui il mio corpo diventava l’oggetto di un sacrificio rituale o il soggetto di una provocazione, di un accedere ad una conversazione con gli abitanti di sperduti paesini della Calabria. La mia intenzione era quella di una metaforica poetica “in luogo” che avesse come riferimento luoghi specifici, marginali rispetto alla centralità dei luoghi deputati dell’arte. Molte di queste azioni non venivano documentate proprio perché se ne voleva tenere segreto l’aspetto rituale ed esoterico. Ricordo volentieri l’invito di Filiberto Menna all’Università popolare di Napoli, nel 1976 in una rassegna dal titolo Segno, Territorio, Avanguardia .
Illustrerebbe i punti focali della Sua attività di artista, i passaggi che ritiene più importanti?
L’interesse verso la performance è sempre stato rilevante nella mia attività. Continuo a realizzare video che documentano alcune mie azioni. Negli anni ottanta sono tornato alla pittura, soprattutto mi interessava il rapporto fra scrittura e pittura. In quegli anni mi sono occupato di filosofia. Ho pubblicato insieme a Filosofi come Donà, Gasparotti, Galimberti, Sini, Sgalambro, Vitiello libri come : Insulae “l’arte dell’esilio” edito nel 1993 per i tipi Costa &Nolan e A-ISM edizioni Parise nel 1994. Nel 2006 pubblico un dialogo con Carlo Sini dal titolo “il passato futuro della pittura” in “in contrattempo” per i tipi “Mimesis”. Ho pubblicato per i tipi Arcipelago il libro “Di nuovo il senso”; un passaggio nel contemporaneo, tra arte e filosofia, con una prefazione di Gabriele Perretta. Sta per uscire per la casa editrice Mimesis un mio nuovo libro dal titolo Le Diarchie dell’arte. Dagli anni Novanta fino al 2012 la mia pittura si fa densa, visionaria, carica di colore, caratterizzandosi sempre di più per la presenza di testi letterari, filosofici e poetici. Direi che più di passaggi si tratta di universi e linguaggi che si incontrano e a volte divergono nella dimensione del mio operare. Ciò che cerco è sempre una via di fuga, una possibilità che sta nell’intreccio tra performance, pittura, filosofia, poesia e scrittura.
Quale dimensione privilegia dell’arte, quella teorica o quella tecnico-pratica? E in ciò dove si inscrive l’ispirazione?
Non esiste una separazione fra un livello tecnico/pratico e uno teorico. Entrambi partecipano, sono dentro lo stesso universo espressivo dell’arte. Non so se oggi conviene riferirsi ad una fonte d’ispirazione. Ciò che vale è la costante ricerca, la curiosità, lo sconfinamento e poi c’è una dimensione etica e veritativa, rispetto all’opera d’arte e al mondo a cui oggi l’artista deve saper corrispondere.
Che cosa scatta nell’artista che si racconta?
L’artista non deve raccontarsi ma deve saper raccontare in maniera includente, il che vuol dire che deve porsi non come soggetto autoreferenziale, bensì come strumento di una possibilità, di una relazione con l’altro, il che è anche accesso ad un’altra realtà. Ciò che può scattare è proprio una nuova sensibilità che ci coinvolge e ci fa bene.
Intervista di Isabella Lopardi
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