“Questo racconto è dedicato all’Arma dei Carabineri , nella giornata in cui si celebra il bicentenario della sua fondazione. Lo scrissi alcuni anni fa ed è all’interno della raccolta “Lezioni di Volo“. Spero che riesca a trasmettere i sensi di stima, di rispetto e di affetto che ho verso l’Arma e verso tutti i suoi componenti. Buona lettura.”
Salvini Antonio, Appuntato dei Carabinieri.
L’uomo era seduto al tavolino posto di fianco alla porta d’ingresso del bar, accanto alla cassiera, ed era molto difficile notarlo poiché, entrando nel locale, dovevi per forza girargli le spalle per richiudere la porta. Anch’io, che ero entrato di corsa per cercare un po’ di riparo al vento gelido di quella grigia giornata di febbraio, non m’ero per niente accorto di lui e solo dopo essermi seduto al solito tavolo, quello tra l’unica finestra del locale e la grande stufa a legna, riuscii a guardarlo bene in faccia e riconoscerlo.
Era lui, o in ogni caso gli somigliava parecchio: Antonio Salvini. Ma guarda… in quel momento mi ritornava in mente, dopo tanti anni, perfino il cognome; anche se, come tutti gli altri in paese, l’avevo sempre chiamato Antonio Carabiniere oppure Antonio dei Carabinieri, come se quella fosse stata la sua casata o quasi ravvisando nell’Arma un ordine monastico e nella divisa una sorta d’abito talare.
Aveva voglia lui a presentarsi sempre con quel contegno grave e severo, abbastanza caratteristico, per altro, nelle persone d’alto lignaggio o quanto meno di nobili frequentazioni: “Permette? Salvini Antonio, Appuntato dell’Arma”. Quindi il rito si consumava sempre con un leggero ma percettibile battere dei tacchi e un mezzo inchino.
Gli pareva sempre opportuno precisare “Appuntato dell’Arma” anche quando, magari perché stava indossando la divisa, non ci potevano essere dubbi su quello che era il suo lavoro; ma nessuno trovava in questo niente di ridicolo, tanto era dignitoso e pieno d’orgoglio durante quel cerimoniale che lo faceva sembrare, più che un Appuntato, un Generale.
Niente da fare: per tutti noi, comunque, rimaneva solo Antonio Carabiniere. Ma in questo, però, non c’era mancanza di rispetto; solo che era benvoluto da tutto il paese e credo che anche lui ricambiasse con affetto sincero quella gente che lo aveva accolto nella piccola comunità come un figlio o come un fratello, talvolta come un padre, quando – ancora giovanotto – era arrivato qui subito dopo il corso d’addestramento.
Era stato trapiantato nella nostra terra, da un’ignota contrada siciliana, in seguito a quello strano intrecciarsi di volontà e casualità per le quali i servitori dello Stato vanno spesso a finire i loro giorni, o a consumare gran parte di essi, in posti mai sentiti e comunque sia sempre remotissimi e lontani dal luogo di nascita. Antonio, proprio come una pianta, aveva ormai messo qui le sue radici forti e profonde. Dopo un po’, infatti, aveva anche sposato una ragazza del paese e messo al mondo due figli, un maschio e una femmina, e questo sembrava aver sancito definitivamente la sua affiliazione alla nostra terra.
Tutti quanti capimmo subito che avevamo fatto un ottimo acquisto con Antonio, perché era un uomo onesto e buono. Cosa che si capiva per prima cosa dallo sguardo.
Avevo letto in un vecchio calendario dell’Arma che lo sguardo di un carabiniere dev’essere vigile, pronto, profondo. Il suo era semplicemente lo sguardo di un uomo buono che amava, forse in uguale misura, la famiglia e il prossimo. Questo cozzava un po’ con l’idea che avevamo noi, ragazzi di allora, dei carabinieri; idea che non credo si discostasse poi molto da quella che possono avere i ragazzi di oggi: i carabinieri erano – non saprei spiegare meglio – strani esseri in divisa in perenne battaglia contro un universo di mascalzoni. Io stesso, per primo, non riuscivo nemmeno a pensare che la loro funzione potesse essere minimamente diversa da questa, perché carabiniere poteva significare solo inseguimenti, sparatorie, manette. Ma ve lo immaginate voi un carabiniere con una vita normale? Che la sera si lava i denti prima di andare a letto, magari con i baffoni sporchi di dentifricio, oppure con il raffreddore, o a tavola, con i figli, mentre borbotta “nonsiparlaaboccapiena”, esattamente come può fare uno qualunque? Mi veniva da ridere solo a pensarci.
No, non poteva essere possibile.
Il Carabiniere, forse, nasceva già con la divisa addosso e non si comportava come tutte le altre persone che mangiano, parlano di calcio, si ammalano d’influenza. Al massimo potevo ammettere – anzi era forse l’unica cosa che mi sembrava naturale – che finissero all’ospedale o all’altro mondo per la pistolettata di un delinquente.
In questo senso le mie teorie subirono un forte scossone quando improvvisamente mi resi conto che Antonio aveva moglie e figli. Lo scoprii una domenica pomeriggio, quando trovai l’intera famigliola a passeggio nel parco del paese. Antonio era perfino senza divisa, le maniche della camicia rimboccate fin oltre il gomito, l’aria tranquilla che avresti potuto confonderlo con una persona come tutte le altre, un impiegato in vacanza, un manovale nel giorno di riposo. E poi i suoi figli, che gli tiravamo la palla e lo chiamavano papà, papà… Incredibile.
In quel preciso momento, all’improvviso, capii che Antonio non era un Carabiniere, era un uomo che faceva il Carabiniere.
Non ero deluso, ero però molto turbato: perché un uomo che aveva moglie e figli rischiava di morire ogni giorno per delle altre persone? Perché un uomo che aveva una sua famiglia rischiava ogni giorno la pelle, magari per difendere degli sconosciuti?
Non riuscivo proprio a capire. Comunque, da allora, cominciai a guardare i carabinieri con occhi diversi. Anzi, ogni volta che me ne capitava l’occasione, mi mettevo a fissarli, a sottoporli ad una specie d’esame, come se fossero stati esemplari rari della specie umana. Adesso, però, la mia attenzione non era più catturata dalla fondina, da dove faceva capolino il calcio della pistola, o dalla giberna, nella quale sapevo che erano custodite le munizioni e le manette; e nemmeno dal cappello nero, con la visiera lucida e la grande fiamma arruffata dal vento. Adesso il mio sguardo si fermava a studiare i loro occhi, le loro rughe, andava in cerca dei loro capelli bianchi, spiava l’anulare della mano sinistra per scoprire se portavano la fede e pensavo: quel carabiniere è sposato, quello invece è un po’ anziano, quell’altro è ancora giovanotto. Che strano gioco il mio; ma era poi un gioco? Non mi divertivo certo a riflettere che loro stavano tutti lì, per strada, anche per me. Anzi, sentivo montarmi nel petto un cupo senso di colpa, lo stesso che ancora oggi sento graffiarmi il cuore ogni volta che da qualche parte viene ucciso uno di loro.
Ripensando a tutte queste cose, nel tepore invitante del bar, ero stato lunghissimi minuti con il viso fra le mani, fin quasi ad assopirmi; e adesso, come all’incontrario di un sogno, riaprendo gli occhi vedevo a pochi metri Antonio, seduto al suo tavolo. Non mi sembrava vero. Avrei voluto alzarmi e andare verso di lui per salutarlo ma non ne avevo il coraggio. Forse perché era passato troppo tempo o forse perché troppe cose erano accadute.
E poi, mi avrebbe riconosciuto?
Fu lui a togliermi ogni imbarazzo; dopo esserci incontrati un paio di volte con lo sguardo, si alzò dal suo tavolo e venne verso di me sorridendo.
“Come stai, giovanotto ?” – fu il suo saluto mentre mi stringeva vigorosamente la mano.
“Antonio, ma allora è proprio lei; che piacere rivederla.” – risposi sinceramente felice che si fosse ricordato di me.
Era invecchiato ed il suo viso, solcato da rughe profonde, mostrava anzi qualche anno in più di quelli che doveva avere. I suoi capelli erano ormai tutti bianchi, ma ricordo che già quando se n’era andato via cominciava ad averne molti grigi, anzi tempo; forse per i dispiaceri che la vita gli aveva riservato.
Iniziammo a parlare, anche se in verità fu una specie di interrogatorio quello cui Antonio mi sottopose facendomi, una dietro l’altra, le solite domande di circostanza sui miei familiari, sulla vita di tutti noi in paese, su me stesso. Non mi pareva vero di poter guadagnare tempo e così rispondevo con dovizia di particolari cercando di non far cadere la conversazione e non essere così costretto, a mia volta, a chiedere notizie di sua moglie, di sua figlia, di suo figlio. Già, di suo figlio. Non era stato quel bastardo la causa di tutti i suoi guai? Non era stata sua la colpa se quel pover’uomo alla fine era stato costretto a lasciare il paese, se aveva dovuto perfino lasciare l’Arma? Parlavo e parlavo senza quasi riprendere fiato, continuando a raccontargli della mia famiglia e degli amici comuni, cercando, per ciascuno di loro, di rappresentare in pochi istanti e con pochi cenni quei fatti che avevano segnato, nel bene o nel male, anni e anni della loro vita. Con tutto quel chiacchierare era come se cercassi di stordirlo, ma sapevo che alla fine avrei dovuto cominciare io a domandare. Avrei trovato il coraggio?
Antonio mi ascoltava attento ed io ogni tanto mi distraevo per un attimo dal portacenere sul quale avevo concentrato fin dall’inizio la mia attenzione; così alzavo gli occhi ed incontravo il suo sguardo di uomo buono ed onesto, ma non ce la facevo a sostenerlo e subito ritornavo a fissare il portacenere senza interrompermi.
“Adesso glielo chiedo” – mi dicevo – “Eh, ma come faccio?” E seguitavo a parlare, studiando nel frattempo il sistema più delicato, meno imbarazzante e meno doloroso per entrambi per avere notizie di quel disgraziato di suo figlio. Ma esiste poi un sistema delicato e poco imbarazzante per chiedere ad uno se suo figlio alla fine è stato arrestato? Se è ancora in galera?
In fondo, quel furto alla Collegiata era stata una ragazzata o poco più. O meglio, sarebbe stata una ragazzata o poco più se a commetterlo non fosse stato il figlio di un carabiniere. Se non fosse stato il figlio di Antonio.
Nel mio paese non succede mai niente e tutti si vogliono bene, ma quando succede qualcosa la gente – chissà perché – diventa cattiva e s’ingegna con le parole intorno a quel qualcosa e le parole diventano pietre, diventano macigni; e allora guai a chi tocca.
In breve, era successo che il figlio di Antonio, che già durante l’adolescenza aveva dato i primi segni di un’irrequietezza indomabile, aveva pensato bene di festeggiare il suo diciottesimo compleanno rubando il pezzo più importante della raccolta di ex voto della Chiesa Collegiata: un crocifisso d’oro e smalti, grande quanto una mano.
Forse sarebbe tornato anche a dormire nel suo letto, come aveva fatto tante altre volte dopo aver compiuto simili, ma un po’ meno gravi, imprese. Forse sarebbe tornato anche a dormire nel suo letto, nella sua camera, che era posta accanto a quella dei suoi genitori e di sua sorella. Ma quella notte aveva dovuto dare una botta in testa al sagrestano che si era alzato per il rumore quando aveva scassinato la porta della chiesa, e non gli era sembrato proprio il caso di tornare a dormire proprio accanto ad un carabiniere. Così era scappato non si sa dove, portandosi via quattro stracci e il crocifisso.
Forse sarebbe stato meglio che anche Antonio, senza aspettare quei tre lunghi e terribili mesi, fosse fuggito via subito, come il figlio. Subito avrebbe dovuto andarsene e non far passare tutto quel tempo prima di tornare nel suo lontanissimo paese di Sicilia del quale, probabilmente, conservava ormai solo il ricordo del nome lungo e attorcigliato come un serpente e qualche immagine nebulosa nascosta da qualche parte tra i suoi ricordi di ragazzo. Subito doveva andarsene, perché nel mio paese, quando succedono certe cose, le parole diventano macigni e le persone buone come il povero Antonio a volte ci finiscono sotto, stritolate.
“E allora Antonio, come va?” – Anche se per pochi istanti, adesso riuscivo a guardarlo in faccia; come se il ripercorrere con la memoria quella storia, avesse esorcizzato un po’ della mia paura di incontrare il suo sguardo.
“Bene, adesso” – rispose sorridendo appena, amaramente – “Robertina – ti ricordi di Robertina, mia figlia? – si è sposata l’anno scorso e fra un po’ mi farà nonno di un bel maschietto. Hanno deciso di chiamarlo Giovanni. Sì, Giovanni come mio figlio”.
Si fermò un momento, come per riprendere fiato, poi continuò: “Giovanni, come mio figlio; ti ricordi di lui?”
Come potevo non ricordarmi? – “Giovanni, certo. A proposito, come sta?” – Risposi abbassando nuovamente lo sguardo sul portacenere.
“Non c’è più, Giovanni. E’ morto un mese fa” – e di nuovo si fermò, appoggiando la fronte alle mani giunte e chiudendo gli occhi, stremato.
Gli toccai la spalla con la mano per rincuorarlo e lui si riscosse trasognato come se l’avessi svegliato da un sonno profondo. Volevo dire qualcosa ma non ci riuscivo e mi limitavo a guardare il posacenere continuando a battergli la mano sulla spalla.
“E’ un mese domani che è morto; si è ucciso” – riprese Antonio – “Non sono riuscito a trovarlo in tutti questi anni, e sapessi quanto l’ho cercato. Il suo rimorso, invece, l’ha seguito fino in capo al mondo, e alla fine è riuscito anche a prenderlo.
Dopo che scappò via decisi di tornare in Sicilia, con mia moglie e la bambina. Non ci resistevo più qui con tutti quegli sguardi, tutte quelle mezze frasi… così mi congedai e ritornai al mio paese per lavorare con mio fratello nella piccola masseria di famiglia. Dopo qualche anno i carabinieri smisero di cercarlo, ma io no. Mi tenevo in contatto con amici del nord che in via confidenziale mi segnalavano la sua presenza di qua o di là. Così ogni tanto partivo, mi facevo venti, venticinque ore di treno e piombavo in qualche lurida topaia per cercare di sorprenderlo. Ma non ci sono mai riuscito. Sembrava quasi che sentisse il mio odore nell’aria quando stavo per essergli addosso, che mi fiutasse come un cane, perché quando arrivavo io era sempre da poche ore che se n’era andato. Sai, non so dirti se in questi anni ho odiato di più mio figlio perché fece quella porcheria o per il fatto che ho dovuto, a causa sua, lasciare l’Arma.”
Ascoltavo la voce di Antonio, ma nelle orecchie mi rimbombava il battito del mio cuore che pulsava impazzito per l’emozione che provavo a sentire quello sfogo e nel vedere i suoi occhi che adesso lanciavano, ad ogni parola, lampi di rabbia dolorosa e di passione.
“Non sono mai riuscito a trovarlo, perlomeno a trovarlo vivo. Un mese fa è venuto a casa mia il giovane comandante dei carabinieri del paese e mi ha detto: Coraggio, Antonio, abbiamo trovato vostro figlio; ma purtroppo è morto. Avrei voluto rispondere a quel tenentino: a me è venuto a dire coraggio? A me, che quando ho imbracciato per la prima volta la mitraglietta, lei non era ancora nato? Non ho nemmeno pianto una lacrima, lo giuro. Ho fatto la valigia e sono partito per Torino per andare a riprendermi, dopo vent’anni, Giovanni. E indovina cosa ho trovato tra le sue poche cose? Questa.” E così dicendo, tirò fuori da una custodia di velluto la croce d’oro che tante volte, da ragazzo, avevo ammirato nella Collegiata.
Gli occhi di Antonio adesso ridevano come quelli di un bambino quando è felice, mentre prendevo dalle sue mani la piccola croce che, nella pur tenue luce del bar, sfavillava. Mai però quanto i suoi occhi.
“Credevo che se la fosse venduta da un pezzo, invece qualcosa in questi anni deve avergli suggerito se non di restituirla, almeno di non disfarsene. Pensare che per questa croce ho dovuto lasciare l’Arma, tornare a zappare la terra, seppellire mio figlio. Per questa croce, in fondo, sono stato crocifisso anch’io. Sapessi che impressione mi faceva non essere più Antonio Carabiniere. Laggiù adesso mi chiamano Antonio ‘u villanu ed io non ho ancora trovato il coraggio di gridare a tutti: ohé, gente, io sono stato e sarò per sempre un carabiniere, non un contadino.
Ma ora basta. Se Dio vuole questa maledetta storia è finita. Domattina riporto la croce al parroco. O meglio, sto pensando se non sia il caso di lasciargliela nella cassetta della posta o sopra l’altare… non ho voglia di sentirmi fare domande, di dare risposte. Oh, bada, lo sappiamo solo io e te” – E così dicendo, mi afferrò il polso con entrambe le mani e mi piantò negli occhi il suo sguardo adesso implorante. Volevo rassicurarlo sul mio silenzio, ma non ne ebbi il tempo: mio padre, che in quel momento era entrato nel locale, si stava avvicinando, ed io, per non farmi accorgere nemmeno da lui, dovetti nascondere le mani sotto il tavolo ed armeggiare febbrilmente per rimettere la croce nella custodia.
Mio padre mi salutò, rivolgendo al contempo un’occhiata interrogativa ad Antonio, che al suo arrivo si era alzato in piedi. Si studiarono per pochi istanti.
Fu mio padre a parlare per primo: – “Noi due ci conosciamo, se non sbaglio.”
“Certo che ci conosciamo – rispose Antonio. Poi aggiunse, porgendogli la mano: – “Salvini Antonio, Appuntato dell’Arma” e sorrise, mentre fissava orgogliosamente negli occhi mio padre.
Fine