Friuli-Venezia Giulia: arrivano quattro nuovi Presìdi Slow Food
Il Friuli-Venezia Giulia fa collezione di Presìdi Slow Food.
Sono quattro quelli nuovi avviati nella regione più orientale dell’arco alpino, si tratta:
- della pecora carsolina e del miele di marasca nell’area del Carso, l’altopiano roccioso che domina la città di Trieste
- il pestith, un pesto di rape macerate diffuso in Valcellina e Val Vajont in provincia di Pordenone
- e il saurnschotte, un formaggio tipico di Sappada in provincia di Udine.
“Con questi nuovi riconoscimenti, il Friuli-Venezia Giulia conta 20 Presìdi Slow Food complessivi”, dice Filippo Bier, referente regionale del progetto della Chiocciola che tutela la biodiversità a rischio estinzione.
“Ogni prodotto è importante perché, oltre a valorizzare una lavorazione specifica, contribuisce a far vivere un territorio, a combattere lo spopolamento e contrastare l’imboschimento.
Infatti, i nuovi Presìdi Slow Food, non solo soltanto prodotti della tradizione.
Il termine presidio è davvero quello che meglio di altri designa ciò che determinate razze animali, varietà vegetali o produzioni artigianali rappresentano per i territori, e cioè un baluardo.
Sono ciò che ha fatto vivere generazioni di persone e sono ciò che oggi può salvare il territorio dall’abbandono”.
Anche in una regione come il Friuli-Venezia Giulia, ricca di acqua e dalla selvaggia e rigogliosa natura.
“Perché si può morire anche di troppo verde, inteso come avanzamento incontrollato del bosco. Guai ad abbandonare i pascoli e i prati”, spiega Bier.
Friuli-Venezia Giulia: la pecora carsolina, regina dell’altopiano
Dici Friuli-Venezia Giulia e pensi all’abbondanza di acqua, sia in superficie (a cominciare dai fiumi Tagliamento, Isonzo, Piave, Meduna e dal torrente Cellina) sia sottoterra.
E invece c’è una parte di questa regione nota per l’eccezionale aridità del suo terreno: il Carso, l’altopiano roccioso calcareo che domina Trieste e che divide Venezia Giulia, Slovenia e Croazia.
È proprio in questa zona, e in particolare sulla landa carsica, cioè l’habitat semi naturale composto da prati aridi e semiaridi sul terreno calcareo, che viene allevata la pecora carsolina.
Si tratta di uno di quei casi in cui la mano dell’uomo, l’allevamento e l’ambiente naturale hanno per secoli generato un equilibrio invidiabile.
Il pascolamento ha infatti plasmato la vegetazione, stimolato lo sviluppo di specie endemiche capaci di sopravvivere in condizioni di aridità e reso fertile una terra dalle numerose rocce affioranti e povera di acqua negli strati superficiali.
Un habitat che oggi rischia però di scomparire assorbito dalla boscaglia, a causa dell’abbandono quasi totale della pastorizia e delle pratiche agricole tradizionali.
Il problema dell’abbandono della pastorizia
Un dato può aiutare a inquadrare la situazione: se nel 1961 i capi di pecora carsolina erano circa diecimila, vent’anni più tardi erano appena 250.
Oggi se ne contano 2800, sommando gli esemplari presenti sul suolo italiano (500 circa) e quelli in Slovenia e Croazia.
“In questi decenni, complice il fatto che la produzione di latte è molto ridotta, che i terreni sono piccoli e che i prezzi corrisposti per la carne sono stati ridicolmente bassi, gli allevatori hanno cominciato ad abbandonare gli ovini optando per i bovini“, spiega Aleš Pernarčič, tra gli autori del disciplinare di produzione del Presidio della pecora carsolina.
“Ma si tratta di animali inadatti a quei territori, così l’allevamento al pascolo è stato soppiantato da quello in stalla con tutto quello che questo comporta a livello di benessere animale, di qualità delle produzioni e di tutela e cura del paesaggio”.
Oggi le aziende ad avere la pecora carsolina iscritta all’anagrafe animale sono soltanto tre: l’obiettivo, grazie anche alla nascita del Presidio, è di coinvolgere altri produttori.
La razza carsolina, d’altronde, assicura latte da cui si ottengono ottimi pecorini e una ricotta squisita, oltre a carni e salumi particolarmente apprezzati.
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Sempre dal Carso arriva il Presidio Slow Food del miele di marasca.
Lo si ottiene dal nettare dei fiori di ciliegio canino (Prunus mahaleb), conosciuto anche come ciliegio di santa Lucia, varietà che cresce spontaneamente sui substrati carbonatici del Carso triestino e goriziano e che si presenta come albero di medie dimensioni o ad arbusto.
Il miele che se ne ottiene è di colore ambrato con riflessi rossastri, l’aroma è delicato e il sapore amarognolo ricorda quello delle mandorle.
“Produrre miele significa difendere le api, di cui conosciamo bene l’importanza per l’intero ecosistema, e anche curare una pianta che potrebbe andare in estinzione”, dice Bier. “Con l’apicoltura, insomma, si tutela anche il territorio“.
“Il Carso non è certo uno dei luoghi più noti per l’agricoltura, vista la tipologia di terreno e la ridotta superficie arabile, eppure c’è sempre stato qualcuno che lavorasse ogni piccolo appezzamento disponibile per renderlo produttivo”, dice Aleš Pernarčič.
“Ai margini delle zone coltivate, invece, sono sempre cresciuti questi ciliegi selvatici che fioriscono tra fine aprile e inizio maggio“.
Proprio il precoce e brevissimo periodo di fioritura rappresenta una sfida per gli apicoltori.
“Essendo l’inizio della stagione, le api devono riabituarsi alla bottinatura dopo la pausa invernale”, spiega Pernarčič.
“E poi il periodo primaverile è notoriamente instabile dal punto di vista climatico, per cui non sempre le fioriture sono sufficienti: sono più le volte che il miele di marasca non riesce di quelle che riesce”.
Dal Carso alle Alpi: il pestith
Il terzo Presidio Slow Food a venire lanciato è quello del pestith.
Ci troviamo nell’ovest della regione, in provincia di Pordenone, e più precisamente nelle valli Cellina e Vajont.
Il pestith, che a seconda della località può essere chiamato anche pestìç, pestìth, pestìf o pastìç, si ottiene dalla macerazione della rapa dal colletto viola.
“Si tratta di una varietà di rapa autoctona che cresce in autunno anche nelle zone montane più fredde e poco soleggiate“, spiega Filippo Bier.
Una volta raccolta, tra la fine di ottobre e l’inizio di novembre, la rapa viene lavata, tagliata e sbollentata per pochi secondi.
Le fette disposte a strati in un contenitore con sale grosso, una spruzzata di aceto e qualche chicco di mais e poi coperta con l’acqua di cottura.
La macerazione prosegue fino al periodo natalizio, quando le rape vengono lavate e pestate: a quel punto sono pronte per essere soffritte in olio oppure burro, cipolle, sale e pepe.
“Il pestith è utilizzato come condimento, ma per le popolazioni di montagna è sempre stata una risorsa importante”, dice Bier.
Si chiama ricotta ma non lo è: il saurnschotte
Spostiamoci un po’ più a nord, fino alla zona di confine tra Friuli-Venezia Giulia, Veneto e Austria: Sappada, in provincia di Udine, è il comune più alto della regione, a quota 1245 metri sul livello del mare.
È qui, in questa località germanofona delle Dolomiti, che nasce il saurnschotte, un formaggio il cui nome potrebbe trarre in inganno: non si tratta infatti di una “ricotta acida”, come invece suggerirebbe una traduzione letterale dal dialetto locale, bensì di un formaggio fresco.
Si produce con latte bovino intero crudo, a cui si aggiungono sale, pepe e dragoncello fresco o essiccato.
Proprio quest’erba, oltre alla lenta coagulazione acida, è il segreto di questo formaggio: non si tratta di dragoncello comune, ma di quello di montagna, chiamato perschtroum nella lingua locale, che cresce spontaneo ai margini dei pascoli e dei boschi sappadini.
Raccolto durante la stagione estiva e conservato sotto sale per averlo a disposizione durante la restante parte dell’anno.
Il saurnschotte, che si conserva per circa quindici giorni, è l’ingrediente principale di alcune ricette tipiche sappadine come la schottedunkate, ottenuta mescolando il formaggio con la schiuma di polenta e il latte, il tutto condito con burro fuso.
Si usa anche come ripieno per i ravioli (cjarsons), oppure semplicemente spalmato sul pane.