Non è una delle tante bufale che girano in rete, ma il risultato degli studi ed esperimenti di una start up italiana sull’uso del rabarbaro come fonte di energia, condotti in collaborazione con l’Università di Harvard, l’Università di Tor Vergata di Roma e la Fondazione Bruno Kessler di Trento.
La start up è la Green Energy Storage, il cui presidente è Salvatore Pinto, che ha coordinato il lavoro dei ricercatori nello sviluppo di una batteria che sfrutta il chinone ricavato dalla pianta del rabarbaro, da non confondere con il chinino né con il chinotto.
In realtà non è solo il rabarbaro a fornire la molecola, ma praticamente tutte le piante; il chinone è infatti una molecola biocompatibile e a basso costo prodotta dalle piante durante la fotosintesi, anche se a quanto pare il rabarbaro ne contiene più delle altre.
Il rabarbaro usato anche nella farmacologia
Il ruolo dei chinoni come trasportatori di elettroni nei processi metabolici primari come appunto la fotosintesi e la respirazione mitocondriale è vitale per la vita umana, trovando applicazioni in campo farmacologico come antibiotici, antimalarici, anticoagulanti e antitumorali, così come anche in fotografia; grazie alla sua colorazione viene usato anche come colorante e riflessante dei capelli e per tatuaggi temporanei della pelle.
La ricerca e la successiva sperimentazione, forte di contributi pubblici della Comunità europea, che ci ha messo due milioni di euro e della provincia autonoma di Trento che ha stanziato tre milioni, ha portato alla realizzazione, per ora, di una batteria con una potenza di 2,5 kW, ma con l’obiettivo di raggiungere presto i 10 kW.
Dal rabarbaro l’energia del futuro
La batteria è fatta da due serbatoi a ciclo chiuso di un centinaio di litri in totale, uno contenente il chinone e l’altro acido bromidrico, due pompe e uno scambiatore per i fluidi, che si scambiano ma non si mischiano mai; la batteria collegata riconosce la fonte di energia e quando si scarica le pompe si riattivano e le restituiscono la potenza immagazzinata, in modo tale da permettere ai consumatori di immagazzinare la propria autoproduzione rinnovabile per un successivo utilizzo e rendersi così autonomi dalla rete elettrica.
In questo modo si riesce a superare il più grande difetto dei sistemi di produzione elettrica da fonti rinnovabili: l’impossibilità di accumulo per sopperire ai momenti di mancata produzione del sistema come, ad esempio, la notte per gli impianti fotovoltaici e la mancanza di vento per quelli eolici.
Questa “batteria organica”, com’è stata definita, ha un ciclo di vita di tre anni circa, ma funziona, tanto che la Green Energy Storage sta lavorando per introdurne presto sui mercati di tutto il mondo diversi tipi; il primo passo in tal senso è stata la stipula di un accordo con Romande Energie e Sorgenia per raccogliere dati e testare la batteria sul campo, prima di partire definitivamente con la nuova avventura.
Il rabarbaro e i vegetali in genere, dunque, ci salveranno dall’effetto serra e dalle bollette energetiche sempre più salate.