Occupazioni abusive: due sole parole che nascondono una realtà sommersa, strisciante, una storia di privazioni, di povertà e di solitudine. Una ferita aperta da anni, un problema che non si risolve staccando luce e acqua alle famiglie che occupano.
Famiglie che non temono l’assenza di servizi essenziali, la carenza di infrastrutture, che vanno oltre i divieti, che non hanno paura di sfidare la legge, persone che non sanno che farsene di codici e articoli che parlano di azione di rivendicazione, di reintegra nel possesso, di titolari legittimi e di reati e pene. Perché per loro quale sarebbe l’alternativa? Finire nella strada, nel putridume dei campi clandestini che le hanno private di sogni e speranze. Occupazioni abusive: due parole, sinonimo di mancanza di alternative, specchio di un presente non troppo diverso da un passato lontano e dimenticato da molti, un passato fatto di Italiani con le valigie di cartone in mano, pronti a sfidare il miracolo economico; eppure loro, gli Italiani degli anni Cinquanta e Sessanta, riuscivano a integrarsi, i “terroni” a diventare cittadini del mondo in un nord spesso diffidente ma, in fin dei conti, capace di accogliere.
Già, accoglienza: un termine assolutamente fuori luogo – anacronistico quasi – nell’evoluto 2014, nelle periferie del degrado e della criminalità dilagante. Una questione giuridica, certo, ma prima di tutto profondamente sociale. Perché, di fronte, a notti insonni fatte di persone che diventano guardiani del focolare domestico, di spranghe e bastoni che buttano giù porte e finestre, di fronte a uomini, donne e bambini che rivendicano il diritto di vivere come persone e non come animali, la soluzione non può essere l’esercito o gli sfratti a raffica compiuti dalla forza pubblica. Giuste le osservazioni di Cisl e Sunia nella recente lettera scritta al ministro delle infrastrutture e dei trasporti Maurizio Lupi: «per garantire sia diritto alla casa che integrazione sociale» occorre rilanciare «una politica che parta dalla domanda più debole, con un consistente aumento dell’offerta di abitazioni in affitto sostenibile», e nel quadro di una «strategia di riqualificazione e rigenerazione urbana in cui l’inclusione delle periferie deve essere una priorità».
Senza tanti giri di parole, quello che si chiede a gran voce è il ripristino della legalità, al di là delle riassegnazioni degli alloggi inutilizzati, dei fondi per il sostegno all’affitto, di leggi e leggine varie ed eventuali: interventi giusti, necessari ma, alla luce dei fatti, non risolutivi. Porre fine al fenomeno significa in primis fare la guerra all’esclusione sociale e dare un’alternativa a chi alternative non ne ha. Questo è possibile solo creando un connubio indissolubile tra le politiche abitative e la creazione di posti da lavoro. Quel lavoro che manca e che, nella sua assenza, esaspera gli animi, crea diffidenza, alimenta la logica della prevaricazione, della violenza e della devianza. Puntare sul lavoro: una soluzione tanto banale quanto illuminante, una misura complessa nella sua semplicità e in grado di realizzare davvero quella giustizia sociale che sta diventando sempre più un miraggio, un’espressione tanto forte quanto vuota di contenuto.
Maura Corrado