Nell’affollamento del villaggio globale di oggi, quel che è posto in risalto nelle opere di Valentino Bardino è il vuoto, nel quale si concretizzano forme architettoniche elaborate sapientemente. Le sue opere riproducono strutture, non mostrano la figura umana, pur nella perfetta conoscenza della sua anatomia. Nei cantieri abbandonati gli artefici di carne e sangue sono altrove, ma non c’è desolazione in queste architetture industriali: precisione, piuttosto. E’ come guardare il mondo degli artefatti umani attraverso uno schermo: si tratta di istantanee sulla contemporaneità. Nella dimensione del presente, quasi dilatato, le figure sono a tratti incombenti, a tratti si delineano semplici. Sul colore uniforme, indugiando sul quale possiamo affermare che il paesaggio naturale forse non esiste, sono elaborati prospetticamente tralicci, eliche, frutti del lavoro umano. Come negli anni ottanta la Transavanguardia ha recuperato il concetto tradizionale di pittura, dall’astrattismo Valentino Bardino recupera la figura che non è più astratta, ma resta inanimata, portando in sé chiaro il percorso di andata e ritorno dal concettuale, che a suo tempo aveva detto no al figurativo. Nato a Cagliari, classe 1986, l’artista con disegno impeccabile crea immagini che si stagliano sul nulla. Svariate le mostre e i premi nel suo curriculum. Nel novembre 2014, a Londra, ha partecipato alla collettiva Exhibit Here 59 Artworks.
Per cominciare, la sua autobiografia: dove e come ha cominciato, dal primo segno impresso sul colore?
Ho incominciato fin da piccolo, a casa mia, con la riproduzione su carta di varie tipologie di figure prese da vari giornali, e già da allora davo più importanza al segno, insieme al colore. Man mano poi, con l’avanzare dell’età, sia con il Liceo Artistico sia con l’Accademia, ho cercato di concentrarmi su questi due fattori fondamentali, che ora determinano la mia ricerca.
Che cosa significa per lei la Transavanguardia?
La Transavanguardia è stata il primo periodo che ho seguito veramente tanto, così importante da sceglierlo per la tesi finale all’Accademia delle Belle arti di Sassari. E’ stato fondamentale poiché nel corso dei miei primi anni all’Accademia davo più importanza al segno assoluto e poetico e quasi astratto, con sfondo sempre monocromatico. Erano gli anni nei quali seguivo Cy Twombly ed ero fortemente influenzato dal suo espressionismo e ancora da Franz Kline e dall’immagine di Paul Klee, cosicché i miei lavori sono stati un mix tra disegno sfocato e pittura. Con gli anni avvenire poi, c’è stato il ritorno al segno, nello stesso modo in cui accadde per la Transavanguardia, che dominò la scena internazionale con il ritorno alla manualità e alla pittura dopo gli anni dell’arte concettuale.
In che senso Torino è stata per lei la città della svolta?
Considero Torino una tappa e un punto cardine della mia ricerca perché ho potuto fare quel salto di qualità che stavo cercando di avere. Qualche anno fa, ho potuto avvicinarmi alle anime delle architetture industriali nei dintorni di Torino, ormai abbandonate da tempo per via della grande crisi. Così negli stessi anni, non solo catturavo i soggetti provenienti dal paesaggio sardo che avevo intorno a me come pale eoliche, tralicci, gru e silos, ma mi stavo avvicinando a questi cantieri abbandonati. Un altro punto fondamentale per la mia esperienza a Torino è stata la conoscenza del grande artista modenese Andrea Chiesi, uno tra i pittori eccellenti, con il quale ho avuto modo di stringere amicizia: ho potuto studiare le sue bellissime architetture.
Come è stato il suo rapporto con Londra, dove si è trasferito? In che cosa si svolge il contrasto rispetto alle città cui era abituato?
Il mio arrivo a Londra è stato abbastanza disorientante, città enorme con un ritmo di vita molto veloce e stressante. E’ una città che ti ruba molte energie dove però, a parte il primo periodo, mi sto orientando al meglio. Ora sto vivendo a East Ham, a circa un’ora dal cuore londinese. Completamente diversa da altre città italiane per il suo stile di vita e soprattutto per la cultura apparentemente aperta a tutte le culture del mondo. Londra è caratterizzata da tanti palazzi con un’architettura definita e una street art abbastanza presente nella zona Shoreditch
Come vede il rapporto tra arte e urbanistica? E tra arte e sociale?
E’ una domanda molto interessante, per nulla banale. Continuo a chiederlo a me stesso ogni giorno! Mi piace vedere l’architettura e l’urbanistica che si trasforma in arte. Quello che mi piace meno riguardo alla street art invece, è che questo stile è nato come lotta sociale e ora si è trasformato in una sorta di brand.
Come si differenzia il suo percorso, che è figurativo, dall’astrattismo e dal concettuale, dal ready made e dall’objet trouvé? In altre parole, perché la figura e la tela restano, nei suoi quadri, e anche indenni nei secoli?
Per quanto mi riguarda, la scelta della figurazione arriva dopo anni di prove e lavori. Ti accorgi solamente quando ti incuriosisce di più di un altro stile. E’ una prassi quasi spontanea e a mio avviso rimane una vocazione.
Dipinge strutture industriali su sfondo monocromatico: strutture imponenti. È la cultura che si imprime sulla natura?
Diciamo che ormai la natura si imprime sull’arte e sull’uomo. Siamo troppo piccoli per modificarla.
Gioca tra piatto e volume: è la tecnologia che incombe sul mondo, come il treno che provoca la fuga dei primi spettatori cinematografici?
A questa domanda mi scappa da ridere. Sì ora con la tecnologia mi trovo molto meglio, purtroppo mi sono dovuto adeguare! Spostandomi continuamente da un posto all’altro non posso permettermi di non avere un telefono con tutte le applicazioni. I miei paesaggi, presi dal vivo, sono del tutto contemporanei. Certo, può sembrare che, essendo oggetti meccanici, tecnologicamente rispecchino un’epoca precedente all’informatica, un po’ come il primo treno in uno dei primi film, che aveva provocato la fuga degli spettatori dalla sala perché avevano paura di essere travolti.
Ha mai rivolto la tua attenzione al plastico e alla struttura architettonica?
Certo, è il mio lavoro, che faccio ogni giorno attraverso i miei occhi. Cerco sempre di osservare l’architettura, attraverso la realtà oppure attraverso un mezzo fotografico. Sento il bisogno di conoscere assolutamente la realtà che mi circonda.
Ha mai compiuto il passaggio dalla prospettiva che è nel quadro all’oggetto che esce dalla tela e alla scultura?
Sì assolutamente. Durante gli anni del Liceo Artistico (“Dettori” di Cagliari, ndr), come materia ho seguito Ornato modellato e diciamo che me la cavavo piuttosto bene con l’argilla, tanto che il professore dell’epoca, una volta finito il Liceo, voleva che mi iscrivessi all’Accademia di Belle Arti Carrara per frequentare l’indirizzo in Scultura. Grazie invece alla mia testardaggine, alla fine scelsi l’indirizzo in Pittura all’Accademia di Belle Arti di Sassari (“Mario Sironi”, ndr).
Ha in cantiere mostre ed esposizioni? Ha un sogno?
Incomincio con l’incrociare le dita! Sì, diciamo che mi sto dando tanto da fare, poi sarà solamente il tempo a poterlo dire! Quello che posso dire con certezza, è che sto conoscendo molti ottimi artisti che vengono da ogni parte del mondo e ciò mi sta facendo crescere dal lato professionale. Posso essere più che soddisfatto. Da questo lato quindi sono felice. Il mio sogno? Beh, è ovvio che ce l’abbia. Sta dentro il cassetto.
Intervista di Isabella Lopardi
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