Sul treno Q non si può evitare il frastuono dell’express che da Manhattan Union Square porta rapido a Brooklyn. Lo prendo spesso, il Q, non sempre, ma spesso. La temperatura è decente, l’aria condizionata funziona eccome, nonostante lasciando Canal Street il treno si blocchi. Di solito le fermate inattese, non serali ma mattutine, son0 causa di passeggeri a cui qualcosa è andato storto: ora no, adesso dicono che sia un problema tecnico sulla linea gialla. Non ho fretta, l’ufficio è chiuso per fine giornata, non ho un match di tennis da giocare o qualcuno a casa, in questi giorni, a guardare l’orologio attendendomi. Se proprio deve succedere, non vi è miglior momento che questo, per rimanere bloccati nella metropolitana.
Osservo le vittime di questo contrattempo: la gran parte sta andando fuori di testa, in perfetto stile newyorkese, impaziente, poco cortese, intransigente, intollerante, frettoloso. I più si mettono a bestemmiare attingendo ad interi vocabolari semi sconosciuti, dopo aver ripassato i classici dell’improperio. Io osservo, come se non appartenessi al loro mondo, come se fossi per errore lì e fossi l’unico baciato dalla fortuna, l’unico a non aver altro che tempo da perdere. Partono i newyorkesi veraci, con pestoni e pugni come se così facendo aumentassero le probabilità che la metro riparta. Nelle luci artificiali, nel brusio raffreddato e atono dell’aria condizionata del vagone sotto terra, inizio ad ascoltare ed osservare quelli che, rassegnati o semi-indifferenti come me, ormai devono aver razionalizzato che usciremo da qua sotto, prima o poi. Ascolto conversare tre persone della comunità gay, parlano indifferenti alla fermata forzata, disquisiscono di politiche per le minoranze, di quotidianità favorevole, di leggi che stanno cambiando. Poco più in là due sud americani evidentemente adottati dalla Grande Mela, parlano di loro figlio a casa, e due persone dell’est europeo accendono una discussione che non posso capire. Plurime lingue, nazionalità e modi convivono calmandosi forzatamente, primi tra tutti i sette cinesi rassegnati con lo sguardo basso.
Per 40 minuti stiamo fermi, fino a che il sole, tardo e spento, ci accoglie sul ponte di Manhattan, alla ripresa della corsa. Anime frenetiche si proiettano su smart phones, email, chiamate e text messages ad avvisare del ritardo (primi tra tutti, di nuovo i cinesi) mentre il ponte scorre e mi godo sornione la vista di un tramonto romantico su Wall Street. Viaggiamo tutti verso il buio, verso il tunnel di Brooklyn che, di qui a poco, ci riaccoglie, ci isola di nuovo dal mondo, speriamo senza intoppi, speriamo ci permetta di interrompere la forzata convivenza al più presto. Osservo le nevrosi urbane: temo d’esser l’unico a pensare che la fermata sia valsa la vista di un sopraggiunto tramonto mozzafiato dal ponte.