Scorrendo la biografia di Antonio Manzini non si può che restare colpiti dalla sua versatilità, da come sia riuscito ad alternare l’abito dell’attore e quello dell’autore nel corso della sua carriera.
Nel 1989, venticinquenne, prese parte al primo film, per proseguire poi, tra televisione e cinema, sino al 2016, quando affiancò al ruolo di attore quello di sceneggiatore e regista.
La grande notorietà arrivò però quando Antonio Manzini decise di dedicarsi anche alla scrittura, nella forma del racconto e del romanzo.
Già interprete di ruoli polizieschi, creò un nuovo personaggio, il Vicequestore Rocco Schiavone, uomo burbero e poco incline a rientrare negli schemi, ma di eccellenti capacità investigative.
Rocco Schiavone colpì sin dall’inizio i lettori ed ottenne in breve tempo, a partire dal 2013, la stessa fama di alcuni suoi colleghi italiani, come il celeberrimo commissario Montalbano o il commissario Ricciardi.
A dimostrazione della sua versatilità, Antonio Manzini ha scritto anche romanzi di calibro differente, come “Orfani bianchi”, storia della difficile vita di una badante moldava che ha dovuto separarsi da suo figlio per poter venire in Italia a lavorare, e “Gli ultimi giorni di quiete”, storia di dolore e di mancato riscatto.
Quando il dolore è uno tsunami devastante
Gli ultimi giorni di quiete sono quelli di Pasquale e Nora, titolari di una tabaccheria di Pescara, prima che, per un’atroce beffa del destino, perdano il loro unico figlio Corrado, ucciso nel corso di una rapina.
Antonio Manzini non ha costruito dal nulla questa storia, ma è partito da uno spunto reale, un fatto di cronaca di cui aveva sentito parlare durante un viaggio in treno.
Se andiamo a cercare nella cronaca nera, troviamo purtroppo molti riscontri a questa storia, vicende che hanno per protagonisti padri, madri e figli dalla vita spezzata, vuoi per la morte vuoi per il ricordo di una morte ingiusta e dettata dal Caso.
Per Nora e Pasquale è andata proprio così: la presenza del figlio nella tabaccheria è stata una sfortunata coincidenza, dovuta alla scelta di Pasquale di andare a comprare un abito per una cerimonia di famiglia.
Niente di urgente, niente di importante, il che rende la vicenda ancora più paradossale.
Che cosa sia successo nella tabaccheria di Pescara viene raccontato a posteriori, come memoria: un rapinatore entra armato di coltello, Corrado reagisce, studia giurisprudenza, lui, sa che cosa si intende per rispetto della legge, sa che quello che sta capitando non dovrebbe essere permesso.
Reagisce, dunque, per proteggere e tutelare il lavoro del padre, ne deriva una colluttazione, Corrado in pochi istanti è a terra, la vita che sfugge via tra la disperazione del padre appena rientrato.
E’ in quel preciso attimo che sono finiti per sempre i giorni di quiete di Pasquale e Nora. Dopo c’è stato solo il dolore devastante che ha permeato di sé le loro giornate, riempiendo sino all’orlo il vuoto lasciato dalla morte del figlio.
Uno tsunami, quel dolore, che travolge tutto sul suo cammino, genera invidia per chi ha ancora accanto i propri figli, ma anche rabbia perché a morire non è stato il cugino di Corrado, Daniele, un ragazzone cresciuto solo nel fisico e rimasto all’età della prima infanzia, una vittima sacrificale più adeguata secondo il distorto senso dell’equità maturato da Pasquale.
Della famiglia che erano non è rimasto nulla: anche il rapporto di Nora e Pasquale si è spento per sempre, vivono come due estranei nella stessa casa, non si parlano più, occupati a coltivare ciascuno il proprio dolore.
Antonio Manzini si inoltra con profondo rispetto nell’intimo di questi genitori svuotati, annientati dalla casualità del destino, lasciando ampio spazio alla formazione di una nostra personale empatia, di un giudizio etico che ci accompagni sino alle pagine finali.
Corrado vive nella loro memoria, nella camera della loro casa dove talvolta Nora si rifugia per ritrovare persino gli odori del figlio che non ha più, nella infinitesimale pace che ha procurato loro l’arresto del colpevole e la sua condanna.
Ma anche questa parvenza di quiete è destinata a finire, nel momento in cui è nuovamente il Caso a palesarsi.
Giustizia privata contro ingiustizia pubblica: per Antonio Manzini una scelta di vendetta silenziosa
Pasquale e Nora hanno avuto sei anni di tempo per metabolizzare il loro dolore, ma non sono stati sufficienti.
Il processo che ha condannato il responsabile per omicidio preterintenzionale gli ha comminato una pena iniziale di quattordici anni che, grazie alla buona condotta e ad altri articoli di legge, si è ridotta a cinque anni, due mesi e quattro giorni: tanto poco vale, agli occhi di una madre e di un padre, la morte del figlio.
Poco, troppo poco, quasi nulla al confronto di ciò che è stato perdere Corrado.
Quando Nora, di ritorno a Pescara, scorge per caso, sul suo stesso treno, nel medesimo vagone Paolo Dainese, l’assassino tornato in libertà, non riesce a darsi pace, a trovare un senso al fatto che lui sia vivo e libero, al contrario di suo figlio.
Antonio Manzini mantiene nel corso del racconto una costante focalizzazione multipla, scivola dai pensieri di Nora a quelli di Pasquale, segue nel suo formarsi l’idea di una giustizia privata che alberga in entrambi.
E’ giusto quello che sa succedendo?
Perché a Dainese è data l’opportunità di rifarsi una vita, di avere una fidanzata, di poter pensare a un figlio suo dopo ciò che ha fatto?
Vista dall’esterno questa serie di domande appare poco etica, slegata dal rapporto colpa/punizione, ma i genitori di Corrado non possono spostarsi all’esterno, vedere la storia come se appartenesse a qualcun altro.
Se lo Stato, la legge e gli avvocati non sono stati capaci di togliere almeno in parte a Paolo Dainese ciò che lui ha tolto a Corrado e ai suoi genitori, rimane aperto solo lo spazio della giustizia privata.
Pasquale e Nora trovano così una ragione valida per vivere giorno dopo giorno il loro strazio, quella di costruire per lui un fine pena mai come equa condanna per Paolo Dainese.
Per lui, tornato libero, la famiglia di Corrado non esiste più, si sente in diritto di ricostruirsi una vita, pensa di aver pagato il giusto prezzo per un’azione di cui si è mostrato pentito, porgendo le sue esplicite scuse al termine del processo.
Ha ucciso ma non voleva uccidere, ha trascorso cinque anni in carcere, sta cercando di vivere onestamente: è giusto che lo possa fare? È giusto che diventi il pensiero fisso di Nora e Pasquale, l’oggetto della loro vendetta?
Come potranno essi vivere, dopo?
La domanda è in realtà capziosa perché entrambi non vivono più da sei anni, sopravvivono soltanto e non nutrono alcun interesse per prolungare il loro tempo.
Antonio Manzini ci racconta nel suo romanzo questo tempo di vita, che prende forma quando l’ingiustizia si palesa in tutta la sua drammaticità.
Nessuno può capire cosa alberga nel cuore di Nora e Pasquale, tra di loro la comunicazione è ridotta al minimo e così anche nel costruire la vendetta personale ricorrono a percorsi del tutto diversi.
Pasquale pensa ad una punizione drammatica, un colpo di pistola che metta fine alla vita di Dainese e forse anche alla sua, Nora invece costruisce una vendetta più sottile, braccando Paolo nell’officina dove lavora, spostandosi nel negozio da parrucchiera di Donata, la sua fidanzata, trasformandosi nella sua ossessione per raggiungere il suo scopo.
La quiete è davvero finita per tutti, colpevoli e innocenti, giusti e ingiusti, lasciando soltanto uno strascico amaro, la consapevolezza che non si possono dare giudizi su certi comportamenti umani, ci è permesso solo osservarli insieme ad Antonio Manzini, cercando di capirli in rispettoso silenzio e pregando di non doverci mai trovare nella medesima situazione.
TITOLO : Gli ultimi giorni di quiete
EDITORE : Sellerio
PAGG. 231 Euro 14,00 (disponibile versione eBook euro 9,99)