“Ho una figlia di 13 anni che frequenta la terza media. Ieri mi ha convocato l’insegnante di educazione fisica, pensavo fosse per dirmi che non si impegna abbastanza e invece ho avuto una brutta sorpresa. Mi ha detto che mia figlia pratica l’autolesionismo, ha visto che ha le braccia e le gambe coperte da tante cicatrici e piccole scottature. Insomma si fa del male da sola e io non me ne sono mai accorta. Perché è successa una cosa così terribile? Perché non me ne ha mai parlato? E come ha fatto a nascondermi così bene ciò che le stava accadendo? Sono disperata e in preda a un profondo senso di colpa. Cosa posso fare per aiutarla?”
Margherita Lucchini, Sommacampagna (VR)
La domanda denota la sensibilità propria di una mamma di cercare di comprendere le ragioni di un gesto di così grande impatto, sia visivo che emotivo. Il corpo è un potente mezzo di comunicazione, e spesso si fa veicolo principale di espressione e mediazione di emozioni o esperienze profondamente radicate in noi. Per prima cosa, l’autolesionismo è definito come la deliberata messa in atto di gesti volti a danneggiare il proprio corpo. Si esprime attraverso gesti come tagli, bruciature, morsi, a volte tricotillomania (l’abitudine a giocare con i capelli fino a strapparli), che lasciano segni sulla pelle e sul corpo. L’incidenza di questo fenomeno sembra in costante crescita, e interessa prevalentemente il genere femminile. Di solito compare nel periodo pre-adolescenziale e adolescenziale, tra i 12 e i 15 anni: esattamente, l’età della figlia di Margherita. Fortunatamente l’intenzione di farsi del male non è finalizzata al suicidio, al contrario, l’interpretazione maggiormente accreditata della condotta autolesiva è quella di cercare disperatamente di provare qualcosa, un modo cioè per sentirsi vivi, presenti, reali. Certamente vi sono situazioni di disagio particolari che espongono maggiormente all’autolesionismo: bassa autostima, dubbi circa l’identità sessuale, immagine corporea negativa, o condizioni psicosociali disagiate, nonché esperienze traumatiche, basso rendimento scolastico, disturbi dell’umore. Tutte condizioni, però, che non necessariamente portano allo sviluppo dell’autolesionismo.
Non bisogna dimenticare però che tale periodo di vita è per definizione il più delicato dal punto di vista psicologico, poiché è insito in esso un certo disagio esistenziale. Anche dal punto di vista biologico, il cervello sta proseguendo la sua maturazione e sotto l’aspetto letteralmente “cerebrale” possiamo dire di non essere ancora dotati delle strutture adeguate per fronteggiare le situazioni e le emozioni. E’ interessante specificare che il tatuaggio e il piercing sono considerati modi di “segnare” il proprio corpo, ma senza alcuna finalità di ferirsi, mentre il fatto che spesso tagli e bruciature siano fatti in zone corporee poco visibili distingue tali condotte da quelle volte ad attirare l’attenzione. Nel caso della figlia di Margherita, infatti, l’insegnante di educazione fisica si è potuta accorgere accidentalmente del fatto, e molto probabilmente la bambina, come spesso accade in questo tipo di situazioni, avrà provato vergogna di fronte a lei e poi alla mamma quando “scoperta” nel suo segreto. L’autolesionismo è un modo di far fronte a un problema, in questo caso la gestione dell’emotività, attraverso un meccanismo non corretto, che però funge da momentaneo sollievo poiché possiede efficacia a breve termine.
L’autolesionismo sembra fondarsi su problematiche nella gestione e nell’espressione delle emozioni, specialmente durante una fase di vita particolarmente delicata come quella adolescenziale, e sono finalizzate a trovare un modo, tanto più estremo quanto efficace, di tornare in contatto col proprio sé, di riprendere il controllo sulle proprie emozioni e di dar voce a esperienze difficilmente esternabili.
Si parla infatti di finalità “auto-regolative” (allontanare brutti pensieri, gestire lo stress), auto-punitive, di ricerca di sensazioni forti, di affermazione dei confini corporei, di ricerca di attenzione e supporto. Poiché si tratta di modalità estreme per “sentirsi vivi”, innanzitutto bisogna interpretare il fenomeno come un tentativo di affermare la propria presenza nel mondo. Spesso, essendo l’unico modo che si sperimenta per riuscirci, il sintomo si auto-mantiene; “sentire qualcosa anche se è dolore”, “sentirsi reali”, “rompere l’intorpidimento emotivo” sono i pensieri tipici dell’autolesionista. Dal punto di vista terapeutico, i trattamenti più indicati sono quelli psicologici, in particolare la terapia cognitivo-comportamentale e quella razionale-emotiva; l’importante è che la farmacoterapia, laddove consigliata, si associ ma non sostituisca la psicoterapia. Azioni semplici ma utili, indipendentemente dalla psicoterapia possono essere interventi di rieducazione, sensibilizzazione all’ascolto di sé e delle proprie emozioni, presa di contatto con le nostre intimità e profondità, per poterle gestire al meglio.
Immagine copertina di Andrea Piacquadio https://www.pexels.com/it-it/foto/triste-giovane-donna-isolata-che-guarda-lontano-attraverso-il-recinto-con-speranza-3808803/