Per incidenza e diffusione il tumore alla prostata equivale nell’uomo al tumore al seno per le donne, e i dati parlano chiaro: 1 uomo su 16 con più di 50 anni è a rischio tumore. “Ma anche se negli ultimi 10 anni il numero di nuovi casi è più che raddoppiato, soprattutto per l’aumento dell’età media della popolazione, la mortalità è in costante diminuzione, grazie a una maggiore prevenzione, nuove terapie e farmaci di ultima generazione”.
Lo afferma Giario Conti, presidente della Società Italiana di Urologia Oncologica (SIUrO). La sopravvivenza a 5 anni dalla diagnosi supera l’85 per cento e proprio per questo è fondamentale scegliere la soluzione terapeutica che assicuri agli uomini la migliore qualità di vita possibile. Fra le opzioni tra cui poter scegliere (a seconda del tipo di tumore) ci sono chirurgia, brachiterapia e radioterapia, ma anche sorveglianza attiva e vigile attesa, che prevedono di tenere sotto controllo il tumore senza ricorrere da subito a cure non necessarie.
“L’oncologo medico in passato era abituato a trattare e gestire il paziente con neoplasia della prostata solo in fase molto avanzata e aveva a disposizione farmaci solo moderatamente attivi”, spiega Roberto Labianca, past president del Collegio Italiano dei Primari Oncologi Medici Ospedalieri (CIPOMO).
“Oggi non è più così. Nella malattia con metastasi l’utilizzo anticipato della chemioterapia ha dimostrato di aumentare in misura significativa (mediana di 57,6 verso 44 mesi) la sopravvivenza dei pazienti rispetto a quelli che ricevevano la sola terapia ormonale. E la forbice è particolarmente ampia (49,2 verso 32,2 mesi) nei casi più “gravi” (con metastasi ossee estese o localizzazioni viscerali) e il trattamento è stato generalmente ben tollerato. Inoltre i nuovi farmaci chemioterapici (cabazitaxel) e ormonali (abiraterone, enzalutamide) sono oggi disponibili per il trattamento delle forme resistenti alla tradizionale terapia ormonale. Infine l’introduzione delle cure palliative in una fase più precoce consente di migliorare sensibilmente la qualità (e probabilmente la quantità) di vita degli ammalati”.
Quando il tumore non fa paura
Oggi molti tumori (oltre la metà di quelli diagnosticati ogni anno) appartengono a una categoria di rischio basso o addirittura molto basso e quindi avranno una storia naturale molto lunga. Questi tumori non rappresentano un pericolo se monitorati e potrebbero non necessitare di un trattamento invasivo immediato.
«Il carcinoma della prostata in fase iniziale, quando sia ancora confinato all’interno della ghiandola, deve essere inquadrato in base al rischio che può rappresentare, con il passare degli anni, per la salute del paziente e per la capacità o meno di metterne a repentaglio la vita”, dice Conti . “Per definire la classe di rischio devono essere presi in considerazione una serie di parametri come il livello del PSA nel sangue, la sua evoluzione nel tempo, il punteggio di Gleason, il numero di prelievi postivi alla biopsia in rapporto al numero totale di prelievi eseguiti; la percentuale di interessamento di ogni singolo prelievo. In altre parole: il tumore è grande o piccolo? È biologicamente aggressivo o no? Avrà una crescita veloce o, al contrario, molto lenta?».
In base alla risposta si potrà decidere fra i vari standard terapeutici disponibili per un carcinoma ai primi stadi: chirurgia (comunque eseguita, a cielo aperto, laparoscopica o robotica), radioterapia radicale a fasci esterni e brachiterapia, che prevede l’inserimento nella prostata di semi (o di aghi) radioattivi. “Ma per le forme a rischio molto basso devono essere prese in considerazione anche altre strategie: come la sorveglianza attiva, che prevedono di limitarsi ad osservare nel tempo come si comporterà il tumore, per decidere se e quando intervenire, facendolo solo nei pazienti che ne avranno bisogno, se e quando ne avranno bisogno».
Ma qual è la cura migliore per il tumore alla prostata? Impossibile dare una risposta unica ai quasi 43mila italiani che ogni anno si trovano a dover fare i conti con questa diagnosi. “Non esiste il trattamento giusto in assoluto”, rispondono i medici. “La multidisciplinarietà rappresenta un approccio vincente che vede urologi, oncologi, radioterapisti e psicologi lavorare insieme nell’ottica di una migliore gestione del paziente”.