I “grandi saggi” dell’Accademia svedese hanno assegnato in data 8 ottobre a Svetlana Aleksievich il Premio Nobel per la letteratura.
Come ogni anno, i pronostici avevano alternato nomi assai noti al grande pubblico internazionale dei lettori ad altri più di nicchia, meno diffusi, sebbene legati a significativi e ricorrenti riconoscimenti.
La Aleksievich si può a pieno diritto inserire tra questi ultimi, in quanto la scrittrice, per metà bielorussa e per metà ucraina, ha immediatamente suscitato intorno a sé ed alla sua premiazione curiosità e interesse, volti a darle una connotazione precisa.
UN PREMIO NOBEL DECLINATO AL FEMMINILE
Non sono molte le donne che sono state insignite di questo Premio prestigioso (la nostra storia ne ricorda una soltanto, Grazia Deledda, la cui memoria si è per altro notevolmente offuscata), per cui la valenza di Svetlana Aleksievich è sicuramente duplice, in questo difficile momento storico.
Il suo ruolo nel panorama letterario è considerato nel suo paese scomodo, tanto che i suoi libri non vi possono liberamente circolare.
Sincera e caustica, non ha mai mistificato la realtà, ha scelto il sentiero tortuoso di chi esce allo scoperto e cerca di rivelare aspetti del passato e del presente che altri preferirebbero lasciare sotto la cenere.
Denunciare l’invasione russa dell’Ucraina, definire Putin un dittatore, raccontare la tragedia di un popolo prima e dopo la caduta del muro le è costato molto: su di lei sono stati costruiti giudizi denigratori, considerandola quasi indegna di ambire e a maggior ragione di ottenere un simile riconoscimento.
LA STORIA DI UN POPOLO NELLE PAGINE DI SVETLANA ALEKSIEVICH
Con Svetlana Aleksievich è stata premiata “un’opera polifonica, monumento alla sofferenza e al coraggio del nostro tempo”.
Quest’opera, in traduzione italiana, si sviluppa attraverso quattro testi specifici, ognuno dei quali legato ad una problematica del suo paese: da “Preghiera per Cernobyl”, in cui si delinea una tragica testimonianza del disastro nucleare che nel 1986 ebbe una inquietante ripercussione internazionale, a “Ragazzi di zinco”, i reduci della guerra in Afghanistan, per passare attraverso “Incantati dalla morte”, in cui si affronta l’analisi di un tema delicatissimo, quello dei suicidi successivi al crollo dell’Urss e alla nascita del nuovo mondo russo, per arrivare infine a “Tempo di seconda mano”, in cui il panorama dominante è quello della nuova Russia, quella conosciuta attraverso gli avvenimenti più recenti.
A questi va aggiunto il precedente “La guerra non ha un volto di donna”, in cui la scrittrice tratteggia il ruolo che le donne ebbero in Urss durante il secondo conflitto mondiale, schierate al fianco dei loro uomini e spesso addirittura in prima linea, a combattere al loro fianco.
La Storia, così come filtra attraverso le parole di Svetlana Aleksievich, è quella costruita dalla gente comune, da uomini e donne anonimi e senza volto, destinati ad essere dimenticati dopo essere stati perseguitati e uccisi o essere stati mandati a morire in una guerra senza fine.
Per la Aleksievich , perseguitata dal regime di Lakashenko, non c’è dubbio su come usare il premio vinto: l’unica cosa che si dichiara interessata ad acquistare è la libertà, lei che ha vissuto anni ed anni in esilio volontario a Parigi.
Scrittrice, giornalista e saggista, ha voluto negli anni dar voce a chi non poteva averla, ai sopravvissuti che portano su di sé ferite indelebili, a tutti quegli uomini e donne che hanno ritrovato la voce attraverso le sue parole.
Le testimonianze crudeli, talvolta al limite dell’inverosimile da lei fedelmente trascritte ci portano, anzi ci scaraventano dentro ad un mondo che attraverso le immagini dei media non potrà mai apparirci nella sua profonda verità.
Il Nobel a Svetlana Aleksievich, una donna forte dalle mille sfaccettature, potrà servire anche a questo, a far conoscere nelle sue pieghe più profonde un mondo di “salvati” e di “sommersi” dei giorni nostri.