Dal secondo aeroporto di New York, il “La Guardia”, in taxi, fino a casa mia, non ci si impiega mai più di mezz’ora. Per qualche infausta ragione la passata settimana mi son ritrovato bloccato in un traffico paralizzante che alle 6 di sera ha costretto il mio taxi ad tempo di percorrenza di 4 volte superiore alla mezz’oretta stimata.
Vivere le metropoli induce un senso di accettazione, rassegnazione o indifferenza (scegliete voi) verso l’imprevisto e così, allungatomi sul sedile posteriore del yellow cab, mi son concentrato nell’osservare Halloween come ornamento del paesaggio che stavamo attraversando. Halloween insorge prepotente a pochi giorni dalla festa dell’ultimo di ottobre. Per cercare di non morire nel traffico delle tangenziali, il mio conduttore ha preso le strade di quartiere, così da espormi ad un’infinita serie di ornamenti abitativi in omaggio alla festa in questione.
Ragnatele di cotone alte anche 3 piani, finestre, balconi, giardini, ingressi, tetti tutti arricchiti di ogni sorta di ragno, pupazzo, mostro, befana, zombi, zucca capace di richiamare il macabro, il decadente mortuario, l’ironico schelettrico, il nefasto poco luminoso ed al contrario spettrale. Insomma una delle tante orrende carnevalate americane. Dopo un’ora di percorso, non c’e’ soluzione di continuità all’esposizione del mostruoso, arancione su tutto, colore delle zucche e poi grigio, nero, pauroso per induzione, bianco come i fantasmi e ancora zucche ovunque, in immagini, forme, pesi, intagli e dimensioni tra i più vari… eppure c’è qualcosa che non torna…
Senza impegnarsi nella storia di Halloween, mi nasce uno stridente confronto col carnevale che qui, come paragone, non torna. Se è vero che Halloween è una festa di cui ormai pochi conoscono la tradizione, è conclamato che Halloween sia ormai festa finalizzata a dare sfogo ai propri costumi (all’80% non piu’ in tema con il giorno dei morti) e quindi è la festa coincidente col desiderio di fare baldoria: come il nostro carnevale. Tra carnevale e Halloween c’è’ lo stesso desiderio di evasione dal quotidiano, la stessa ritmicità puntuale nell’arrivare alla scusa per travestirsi senza indugi, eppure dopo tanti quartieri imbrigliati d’ornamenti, emerge un cattivo gusto di fondo lontano anni luce dal nostro carnevale.
E’ il cattivo gusto, qui, che vince su tutto, come una sorta di fuliggine umorale che trasforma in poca ironia e tanto commercio scontato e banale, questa festività che si fortifica ormai più solo su radicate dinamiche di marketing: scordiamoci la raffinatezza europea e sorbiamoci la monotonia semplice e solo superficialmente variegata, tipica dell’America commerciale contemporanea.