Tre anni fa, quando morì Franca Rame, compagna di vita e di spettacolo, Dario Fo si dichiarò molto più che vedovo, si considerò privo di una parte di se stesso persa ineluttabilmente.
La cercò ovunque, nei mesi successivi, la trovò sovente a popolare i suoi sogni e arrivò ad identificarla in una rosa sbocciata in un cortile, laddove nessuno avrebbe mai pensato di vederla fiorire: un segno di Franca, quella rosa, un modo per essergli vicina e manifestargli la sua continua cura nei suoi confronti.
Il tempo dell’attesa ora è concluso, Dario Fo se ne è andato con la convinzione che altrove avrebbe ritrovato certamente colei con cui aveva condiviso tante gioie e tante battaglie, anche assai faticose.
Come sempre succede in questi casi, a noi resta la consolazione del suo lavoro, quello che lo ha portato al riconoscimento ufficiale del Premio Nobel per la letteratura, che gli venne consegnato nel 1997 per aver ricoperto il ruolo di chi «seguendo la tradizione dei giullari medioevali dileggia il potere restituendo dignità agli oppressi».
Il teatro di Dario Fo, un recupero del teatro popolare
Alla base del conseguimento del premio stava l’imponente produzione teatrale di Dario Fo, un centinaio di testi nei quali egli ha sempre dimostrato il suo amore, la sua passione per il teatro popolare, quello che in Italia ha una tradizione antichissima.
Fortemente anticlericale e dissacratorio nei confronti delle istituzioni ecclesiastiche, Dario Fo ha cercato le origini del suo narrare nel lontano Medioevo, nelle rappresentazioni religiose che venivano effettuate all’interno delle navate delle chiese ed erano l’unica forma di teatro sopravvissuta ai secoli di distruzione precedenti.
Era il popolo a prendervi parte ed a rappresentare le scene sacre, riprendendo possesso della scena, sebbene non in un teatro, dopo un lungo periodo di silenzio, durante il quale la tradizione latina era stata accantonata insieme ai suoi autori, come Plauto.
Dario Fo recupera questo tipo di teatro narrato e lo reinventa, mantenendo l’aggancio con il sacro ma ribaltandolo completamente nei suoi contenuti.
Ateo, celebratore del sentimento del contrario e del potere salvifico della risata accompagnata ad una satira intelligente, l’autore costruisce e rappresenta per la prima volta nel 1969 il suo capolavoro, Mistero Buffo.
Definito una giullarata popolare, l’opera si articola in una serie di monologhi interpretati dallo stesso Fo che è al contempo autore ed attore, rifacendosi ad episodi di argomento biblico, ai vangeli apocrifi o alle narrazioni popolari sulla vita di Gesù.
Su un palco improvvisato, in mezzo al pubblico a volte accovacciato ai suoi piedi, Dario Fo si muove con lo spirito del giullare, di chi molti secoli prima intratteneva coi suoi giochi di parole gli uomini di corte o, se era un girovago, la gente della strada, improvvisando su un canovaccio una recitazione spontanea e sempre nuova.
Solo nell’interpretazione, senza scenografie e senza costumi, un microfono come unico supporto alla recitazione, Dario Fo diventa un attore completo, utilizza la mimica del volto, la voce variamente modulata, la gestualità precisa e frenetica per rappresentare in chiave satirica un mondo solo apparentemente lontano nel tempo, perché ancora e sempre contemporaneo nelle sue lucide follie.
Le diverse “tavole” di cui è composto “Mistero Buffo” ci portano in contesti diversi: ora siamo in compagnia del custode del cimitero davanti alla tomba di Lazzaro, in attesa che arrivi un Gesù ritardatario che ha promesso di resuscitarlo, azione sulla cui riuscita si accettano scommesse mentre si fa pagare un balzello agli spettatori che vogliono assistere; ora siamo sulla montagna dove sta per verificarsi la moltiplicazione dei pani e dei pesci, in un clima di disorganizzazione che costa agli apostoli il rimprovero di Gesù, alla ricerca del cibo per sfamare i presenti; ora siamo partecipi di una processione voluta da papa Bonifacio VIII, uno degli individui più negativi nella storia della Chiesa.
Dario Fo trascina lo spettatore in questi contesti in cui non mancano mai la critica anticonformista, il dileggio verso i sistemi precostituiti, sempre ammantati di ironia e di divertito sarcasmo.
Il grammelot, la grande intuizione teatrale di Dario Fo
L’originalità di quest’opera non si evidenzia soltanto attraverso i contenuti, perché la sua forza travolgente sta nel suo linguaggio, nella riscoperta della vivacità del dialetto, nella ricerca di un codice addirittura inesistente, perché costituito di parole semanticamente vuote, il grammelot.
Già nell’antichità i cantastorie utilizzavano per divertimento parole prive di significato nelle loro rappresentazioni popolari, giocando sulla significatività dei loro gesti per trasmettere il senso del loro parlare.
Dario Fo ha costruito il suo “Mistero Buffo” su questa lingua: il risultato è esilarante, lo è stato si dalla prima rappresentazione dell’opera ed ha continuato ad esserlo per tutte le centinaia di repliche degli anni successivi.
Ne sia esempio l’episodio della fame dello Zanni, in cui questo povero contadino, esprimendosi in una mescolanza linguistica che raccoglie le suggestioni foniche dei dialetti padani e le unisce agli effetti onomatopeici, sogna di esaudire il suo robusto appetito cucinando in tre enormi pentoloni polenta, carne di cinghiale e verdure: l’azione e frenetica, la gestualità esasperata ma capace di creare sotto gli occhi dello spettatore anche ciò che non esiste ma è immaginabile, il fiume di parole, o presunte tali, pronunciate da Zanni accompagna i suoi movimenti e sottolinea i suoi pensieri.
Il “Mistero Buffo” di Dario Fo ha segnato il teatro moderno, ha tracciato un percorso tanto nuovo quanto antico da seguire, ha ridato valore e dignità ad autori come Ruzzante, ha riportato alla luce la figura dei giullari, dei cantastorie, degli attori della Commedia dell’Arte.
Tutto questo, insieme a molto altro, a innumerevoli altri testi teatrali, a due romanzi, a canzoni d’autore, a scritti politici, ha contribuito a portarlo agli onori dell’Accademia, ma soprattutto ha fatto di lui uno dei più divertenti e dissacranti autori della contemporaneità.
“La satira è un’espressione che è nata in conseguenza di pressioni, di dolore, di prevaricazione, cioè è un momento di rifiuto di certe regole, di certi atteggiamenti: liberatorio in quanto distrugge la possibilità di certi canoni che intruppano la gente.” (Dario Fo)
(Le immagini sono tratte da La Repubblica e Il quotidiano italiano)