Francesco Filipponi è autore di un romanzo che strizza l’occhio a numerosi modelli nati e sviluppati nel secolo scorso, a cui i lettori spesso si avvicinano con timore data la complessità non tanto e non solo della materia narrata, ma anche dello stile proprio dello scrivere.
Nel suo “IL CLASSICO DRAMMA ESISTENZIALE CHE NON TI HA MAI CONVINTO” Francesco Filipponi sperimenta una scrittura onirica, che riflette soprattutto il caos che alberga nella mente del suo protagonista, Frenz.
Nel frammento di vita che ci viene narrato, egli appare spesso come un individuo attanagliato da pensieri che gli sono contemporaneamente propri ed estranei, come se la sua esistenza si riflettesse talora in uno specchio e fosse l’immagina riflessa a prendere vita, e non l’essere reale.
Per Francesco Filipponi modelli e spunti celebri
Il Novecento è stato il secolo che ha de-strutturato il romanzo: sin dai primi suoi anni, sulle base delle spinte centrifughe che provenivano dagli autori della fine del secolo XIX, si sono proposte alla lettura narrazioni che apparivano di un modernismo assoluto, da interpretare come una voluta frattura col passato.
Sappiamo che un impulso non ancora ben strutturato proveniva dalle teorie psicanalitiche ancora imberbi, ma sappiamo altrettanto bene che alcuni nomi celebri percorsero una strada alternativa senza esserne quasi mai venuti a conoscenza. Semplicemente, il Secolo breve stava per mostrare la faglia insanabile tra ciò che era stato e ciò che sarebbe stato nel mondo della scrittura narrativa.
Pensiamo a Svevo e alla sua alternanza del tempo del vissuto presente e del vissuto passato, che il suo Zeno Cosini trasforma in materia clinica per il Dottor S., nel tentativo di rimediare ad un aspetto del sé, il fumo, che non è altro che la manifestazione esterna della sua nevrosi.
Anche Frenz ha un’anamnesi complicata a livello psicologico, che balza prepotentemente in primo piano quando, a seguito dell’incidente motociclistico da cui prende il via la vicenda, deve interfacciarsi con Alice, incaricata di occuparsi di lui a livello terapeutico, evitandone la fuga.
Non è certo possibile evitare un richiamo a Pirandello, al suo teatro delle maschere nude, alla sua volontà di dichiarare la vacuità dei rapporti interpersonali basati sempre sulla menzogna, sulla recita di una parte scelta per l’occasione e mai su ciò che realmente si è (ammesso che un unicum identitario possa esistere).
Alice e Frenz si rincorrono in un gioco di schermaglie a sfondo sessuale senza che nessuno dei due lo dichiari apertamente, nascondendolo invece sotto un moralismo posticcio.
A ventisette anni Frenz si ritrova ad essere un signor Nessuno, “una persona volta a mantenere intatto e scevro di interferenze il senso del proprio essere, ma non in modo freddo ed egoistico, era tutto intento a scoprire ciò che gli accadeva dentro, non voleva perdere nulla e dare tutta l’attenzione alla difesa delle sue diversità interiori” (pag.23).
Francesco Filipponi costruisce per il suo protagonista un viaggio reale ma contemporaneamente metaforico, una sorta di rito di iniziazione in cui Frenz si trova a doversi muovere in modo non sempre facile, da un luogo all’altro, come un nomade alla ricerca della sua terra promessa.
Alice lo ha perso, Alice vorrebbe ritrovarlo per salvarlo.
Da Bologna a Torino a Milano a Innsbruck Frenz vaga come un nomade: “Frenz poteva pensare che gli elementi simbolici alla base del suo essere cominciavano ad essere veramente molti e sentirsi per certi versi uno zingaro. “ (pag. 54)
Al vagare reale egli associa i suoi viaggi nella mente, alla ricerca di punti fermi e di conferme o smentite alle sue azioni: l’incidente, ad esempio, avrebbe potuto essere un atto volontario?
Alice segue le sue peregrinazioni sino in Austria, senza successo, mentre Frenz continua a cercare le proprie radici, un suo aggancio col mondo reale che finirà per dargli una parvenza di appartenenza a qualcuno e a qualcosa, sebbene molto aleatorio.
E per contrapposizione, mentre Frenz trova, Alice perde: lei, che ha quindici anni più di lui ed è ancora una donna viva e giovane, sente che qualcosa le sta sfuggendo nel tempo e nello spazio e scopre così l’incombere sul suo capo di una degenerazione terribile, quella dettata dall’Alzheimer precoce.
Per lui è un alternarsi dentro e fuori le cliniche psichiatriche, per lei questa stessa alternanza avviene a livello mentale, dentro e fuori il presente e il passato. Si ritrovano, infine, accomunati da un destino bizzarro, coi ruoli ribaltati ma non incompatibili, nella prospettiva di aver finalmente individuato un bozzolo adatto ad entrambi.
Le appendici di Francesco Filipponi
A chiusura della vicenda, l’autore offre al lettore una serie di appendici debitamente segnalate all’interno del romanzo, per offrire chiavi di lettura.
La più consistente è una lunga storia del popolo degli zingari, a cui spesso si fa riferimento durante i viaggi di Frenz, visti come portatori di una cultura millenaria che prese piede sia in Europa che nelle Americhe.
Una sezione è poi dedicata a Peter Handke e alla sua scrittura minimale e visionaria, citato come scrittore importante per il protagonista.
Maggiore rilievo è dato però a Erving Goffmann, che “ può senza dubbio essere considerato come un classico della sociologia, che ha contribuito a strutturare le coordinate di nuovi terreni di indagine, in particolare relativi all’interazione faccia a faccia, agli aspetti rituali della vita quotidiana, al comportamento in pubblico, ai meccanismi di costruzione e difesa dell’identità individuale e collettiva.” (pag. 99)
E’ il suo concetto di stigma, di differenziazione, di marca sociale negativa a prendere corpo nelle pagine di Filipponi, in cui i personaggi hanno un’identità stratificata, che sovrappone la reale consistenza del sé alle sue percezioni straniate, alle maschere costruite per adattarsi, in modo utilitaristico e strategico, al reale esterno al sé.
Che la scrittura di Francesco Filipponi sia insolita è evidente ad ogni pagina letta, sembra di scivolare attraverso i flussi di coscienza di Joyce , più disciplinati in questo caso, ma altrettanto simbolici. Proprio al simbolo e alla metafora come componenti dell’esistenza in senso psicanalitico fa riferimento l’appendice posta in chiusura del libro.
TITOLO : Il classico dramma esistenziale che non ti ha mai convinto
EDITORE : Amazzone editore
PAGG. 157, EURO 5,99
Quale autore del romanzo “Il Classico dramma esistenziale che non ti ha mai convinto” faccio alcune precisazioni: sia la cover ivi riportata, sia la nota critica negli interni, fanno cenno al fake di facebook Filippo Neri quale autore della nota critica originale.In realtà si tratta dell’avv. di Milano Danilo Droghetti. Ad ogni buon conto riporto il testo della sua recensione:
“Il flusso di coscienza segna con Sartre la fine di un percorso narrativo. la Realtà (quella cosa cartesianamente evidente ma indefinibile), che per tanto tempo è stata accanto al narratore, esterna, di cui era possibile e doveroso parlare descrivendola come un oggetto – nei casi più sofisticati per vie oblique, dipingendo i riflessi che gettava nella mente – si era spostata: ora era nella mente; anzi: era la mente. Il flusso di coscienza ha delocalizzato la Realtà fino a fare dell’ “esterno” il riflesso.
Sartre revoca in dubbio questo processo: l’esterno esiste, l’interno esiste. L’uno rimanda all’altro come un gioco di specchi. Ma le connessioni tra “dentro” e “fuori” sono arbitrarie: intrinsecamente frustranti.
Pare rimanere solo la possibilità di tacere; oppure scegliere una strada che illude continuamente di portare ad un “dove” che invece fluttua, come nel caso di questo scritto. Frenz è il narratore sempre fuori posto, quindi sempre in grado di vedere da “fuori”, senza mai collocarsi. Quando descrive le sue sensazioni, i suoi paralogismi più razionali d’ogni “logos”, non è in sè: nemmeno in un sottoinsime del sè
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che si osserva: è altrove, parte della Realtà-acccanto. E quando vira descrivendo quell’accanto non lo fa dall’esterno, ma da un altro altrove che è interno all’esterno, ma non situabile.
Tuttavia egli non si sposta mai. L’empasse Sartriano è superato ponendo il narratore nel “nexus” tra la realtà delle cose e quella della mente: due piani distinti che non si escludono a vicenda, sebbene non siano mai riducibili ad una qualsivoglia ipotesi unitaria, poichè l’unica unione (si noti la fondamentale differenza: l’unità è uno stato; l’unione è lo strumento di un processo – che potrebbe anche essere infinito) è appunto il narratore: un “oggetto” frammentato da un’esplosione che, per ragioni inspiegabili – ragioni che non ha senso spiegare, se anche fosse possibile – si è bloccata prima di compiersi completamente.
Così i frammenti non sono uniti, ma non possono disperdersi, come prigionieri di opposte forze, centrifughe e centripete; e nel dire spezzato, nei trapassi oscuri, forse assenti, le connessioni tra “dentro” e “fuori” non sono arbitrarie, nè oggettive. Semplicemente sono.
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Il romanzo appare allora come una Wunderkammer, una collezione di eterogeneità che diviene omogenea per il solo fatto dello stare, tutte quelle cose, in un luogo il quale è per definizione un’utopia (nel senso originario di non-luogo): la camera di pagine su cui sono tracciati i segni delle parole.
Non stupisce dunque l’ubiqua presenza del sesso, dichiarato, evocato, lasciato trapelare: un sesso impotente, non perchè qualche causa ne impedisca l’esercizio, ma perchè oggetto di una volontà che non è concesso volere appieno.
Non stupisce a causa del fatto che ci si possono figurare poche situazioni in cui si riesca a sperimentare la contemporaneità dell’esser “dentro” e “fuori”, se non il coito, in cui si riassume la presenza in due diverse “dimensioni” (prima si diceva della realtà delle cose e di quella della mente), a cui non è data redenzione: non è totale scissione, nè totale unione. E’ solo e soltanto perenne dis-locazione. La si può guardare come una forma di bipolarità, ma sarebbe riduttivo, come ogni clinicizzazione dell’esistenza: sebbene di momento in momento il narratore possa essere più presente “qua” che “là”, la scrittura della sua coscienza non è mai totalmente da una parte; avverte comunque la sua presenza nell’altro
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– e si sente in sottofondo una tensione malinconicamente irata per non poter rendere questa compresenza attraverso il mezzo della scrittura, quasi ad invocare una penna olografica, che rendesse giustizia di tanta con-fusione.
S’intenda: non è concesso sradicarsi da millenni di magia, religione, mito, letteratura; anche in questa nuova percezione del sè (nuova rispetto a quelle che la Storia ha partorito), rimane una pulsione verso l’unità, tanto più avvertita come impraticabile consolatoria favola, quanto più oggetto di – per ironia altrettanto consolatorio – turpiloquio. Ci si passi la banalizzazione se la paragoniamo alla rabbia del bambino, al quale è stato rivelato che i regali natalizi non li ha mai portati Babbo Natale, perchè Babbo Natale non esiste: potrebbe bastargli sapere che i regali li avrà comunque, che Babbo Natale sono in fondo i suoi genitori; però a lui non basta, perchè in quella figura aveva creduto e sperato, e nel momento epifanico della di lei insussistenza, solo vorrebbe poter ancora confidare, e non potendolo, s’infuria.
E’ l’umanità defraudata dalla menzogna dell’unità, ancora (e chissà per quanto) riottosa ad apprezzare il proprio essere unione in bilico tra il collasso gravitazionale dei proprii frammenti e la loro
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definitiva esplosione, che erompe a tratti nell’uso di termini e di scene “volgari” o “repellenti”.
Così il sesso – non metafora, nè allegoria, sibbene simbolo di tanta condizione esistenziale – è frequentemente vilipeso, abbrutito, spogliato d’ogni seduzione grazie a descrizioni autoptiche; nel sesso pure, infatti, e, si diceva, nel suo atto antonomastico – il coito – agisce una tensione verso l’unità che è destinata all’eterna frustrazione: come la maggior parte del nostro essere corporale rimane esterna alla persona a cui ci accoppiamo, così, anche nelle visioni più idilliache, accade del nostro individuo psichico, che anzi deve “dimenticarsi” per trasformare il coito in una seppur breve e transeunte esperienza di com- unione.
Tutto ciò è nel romanzo, ma il romanzo contiene ben più che questo; tuttavia una prefazione non dovrebbe essere nè un riassunto, nè un saggio critico. Ogni scritto, in misura maggiore o minore, è un rebus, per il lettore, e la prefazione può ritenersi soddisfatta quando gli fornisce almeno una delle tante chiavi di lettura: questo, quindi, abbiamo tentato di fare.”