L’amiloidosi cardiaca è una malattia rara, spesso sottodiagnosticata e che può essere fatale.
In un video, Antonio Guzzo, 75enne di Torino, racconta com’è vivere con questa malattia.
L’obiettivo dello short documentary “Antonio – Chi vive l’amiloidosi cardiaca ha qualcosa da dirti”, è quello di sensibilizzare tanto l’opinione pubblica quanto i nuovi rappresentanti istituzionali e la comunità scientifica sulla malattia e l’itinerario delle famiglie dalla diagnosi alla presa in carico.
La storia di Antonio Guzzo
Quasi due anni fa, dopo un normale esame di routine, ad Antonio Guzzo è stata diagnosticata una cardiomiopatia ipertrofica, che poi si è rivelata connessa a un’amiloidosi da transtiretina nella forma “wild type”.
Nel documentario, Guzzo racconta il suo percorso verso la diagnosi, l’inizio della terapia e il momento più drammatico, quando ha scoperto la possibile ereditarietà della malattia e dunque le relative conseguenze sulla sua famiglia, e infine il sollievo quando ha saputo che i suoi figli e nipoti sono fuori pericolo.
“La mia vita è fatta di tantissime cose, non solo della malattia: di amicizia, di come trascorro la giornata, di come vivo la mia famiglia, i miei nipoti”, spiega Antonio nello short doc.
“La malattia c’è e devo cercare di starci dentro, di capirla. E come ci stai? Con la preoccupazione? Pensando che poi devi morire? Pensando che quella malattia ti può portare delle invalidità? Questo è il problema più grosso, secondo me. Perché poi tutti dobbiamo morire”. Guzzo ha quindi sottolineato l’importanza di rivolgersi alle associazioni di pazienti che sono un punto di riferimento anche a livello informativo.
Il patient journey di Antonio Guzzo, il suo itinerario, è stato abbastanza semplice, ma non è sempre così.
Arrivare a una diagnosi corretta spesso non è una tappa facilmente raggiungibile, ma è al tempo stesso fondamentale vista la rapida progressione che può avere la patologia.
Cosa sono le amiloidosi
“Le amiloidosi sono un gruppo definito di malattie, all’incirca una trentina, ereditarie o meno, caratterizzate dall’accumulo dannoso di sostanza amiloide all’interno dell’organismo.
Questa particolare sostanza si presenta sotto forma di piccole fibrille ed è composta da proteine che, per cause diverse, si sviluppano in maniera anomala”, spiega Francesco Cappelli, Cardiologo, CRR Toscano per lo studio e la cura delle amiloidosi, AOU Careggi, Firenze.
“Esistono diverse forme di amiloidosi, ognuna delle quali è dovuta a una specifica proteina: si tratta di patologie multi-sistemiche, che colpiscono numerosi organi e tessuti come reni, apparato gastrointestinale, fegato, cute, nervi e occhi.
Uno degli organi principalmente coinvolti è il cuore, che sviluppa una cardiopatia infiltrativa e uno scompenso cardiaco progressivo.
Per questo motivo il termine “amiloidosi cardiaca” è utilizzato per definire la patologia cardiaca associata alle amiloidosi”.
“È presente in due forme, una ereditaria causata da mutazioni del gene TTR che si manifesta più precocemente, a partire dai 50 anni, e una acquisita (amiloidosi sistemica senile ‘wild type’ TTR o SSA) dovuta a depositi di TTR non mutata che si presenta in soggetti più anziani, 60-80 anni.
È tuttavia possibile che, soprattutto dove non c’è un esordio anticipato, la malattia venga ancora confusa con altre e dunque sottodiagnosticata”, dice Marco Canepa, Università degli Studi di Genova e Ospedale Policlinico San Martino IRCCS.
“I pazienti in media vivono da 2 a 4 anni dopo la diagnosi, in base alla loro condizione al momento del riconoscimento della patologia.
È opportuno, dunque, garantire una presa in carico olistica, gestita da un team multidisciplinare, e in maniera omogenea su tutto il territorio nazionale”.
Amiloidosi cardiaca: l’importanza delle best practices
Secondo gli esperti è importante costruire un early dialogue, nonché una rete tra Coordinamenti Regionali e associazioni di pazienti, per la condivisione delle best practices al fine di migliorare e uniformare la presa in carico, strutturare le diverse informazioni e risolvere le criticità.
“I Centri di Coordinamento regionali, grazie ai codici di esenzione, riescono a raccogliere informazioni in merito al numero complessivo di persone con amiloidosi presenti nella Regione.
Tuttavia questo dato non tiene conto dei pazienti che vengono seguiti a livello extra-regionale e non può essere considerato un valore estremamente preciso”, dice Giuseppe Palmiero, UOC Cardiologia, Ospedale dei Colli Monaldi, Napoli.
“Proprio per questa ragione, strumenti come i registri nazionali e regionali o i codici di esenzione dovrebbero poter comunicare tra loro.
Anche in questo senso è necessario lavorare con l’obiettivo di consolidare e intensificare la collaborazione tra i Centri di Coordinamento, le associazioni di pazienti e i Centri di riferimento”.
Inoltre, l’esigenza di accedere tempestivamente alle cure è una necessità.
“È importante ottenere una diagnosi precoce, perché da lì in poi si parte con la terapia: adesso ci sono farmaci che stabilizzano questa malattia”, dice Antonio Guzzo.
Oltre al trattamento farmacologico che resta fondamentale, le associazioni di pazienti hanno ribadito più volte il bisogno di ricorrere al supporto psicologico, sia per i pazienti che per i caregiver.
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