Elena Mearini, quando i passi di una madre non fanno rumore
Elena Mearini, milanese, alle spalle dieci anni di intensa attività nel contesto della narrativa e della poesia, conduce laboratori di scrittura in comunità e centri di riabilitazione psichiatrica, dedicando attenzione e tempo a chi troppo spesso non trova la corrispondenza tra le cose e le parole, tra il pensare e il dire.
Le sue, di parole, sono invece precise e semanticamente ricche, abbondanti di significato, pronte ad affondare nella pelle di chi la legge.
Il suo ultimo romanzo, “I passi di mia madre”, in uscita a giorni, ne è un esempio significativo: all’interno di un rapporto mancato e proprio per questo malato, la scrittrice trova gli spazi in cui inserire il pensiero della protagonista, il non-pensiero di chi non risponde alle sue richieste di aiuto perchè non può farlo, l’assenza di pensiero di chi potrebbe e non vuole, non ha tempo, ha sempre qualcosa di meglio e di più importante da fare.
Una sintassi volutamente scarna, volta all’essenziale, esalta le parole e le azioni a cui esse si riferiscono, senza nulla concedere al superfluo.
Negli anni dedicati alla scrittura, che le ha regalato riconoscimenti e soddisfazioni, Elena Mearini è andata alla ricerca di persone da trasformare in personaggi, di quotidianità da portare alla ribalta obbligando il pensiero comune e superficiale a fermarsi per elaborare, per provare a capire quanto sia grande l’illusione della perfetta felicità.
E’ stato così con Vera e la sua anoressia, ventotto anni e 35 kg di peso, di ossa: quando il suo scheletrico corpo cade sotto lo sguardo delle persone “i loro occhi inciampano contro gli spigoli delle ossa. Si fratturano addosso allo sterno. Cadono nella morsa delle scapole.”
Il pubblico e il privato si accavallano nella storia di Serena, vittima di una violenza domestica (tristemente nota alle cronache quotidiane), non sufficientemente risolta affinchè si possa evitare di arrivare a mettere in pratica l’undicesimo comandamento, uccidi chi non ti ama.
Bianca, sedici anni e un’ambizione da star del cinema, così come Cesare, cinquant’anni e una vita apparentemente perfetta, diventano attraverso le parole di Elena Mearini la testimonianza di come la menzogna, l’ambizione, la manipolazione, la seduzione e il tradimento siano armi potentissime e affilate.
Nel mondo caleidoscopico che popola i suoi romanzi, Elena Mearini fa emergere con prepotenza la forza della parola che annuncia, denuncia, spiega senza mai nulla concedere all’accessorio, andando a ferire la carne: non sono più “storte sillabe e secche come un ramo” le sue, l’impasse montaliano del poter dire solo ciò che non siamo e non vogliamo ha trovato uno spiraglio di fuga, la possibilità di un verbo che si fa realtà.
Elena Mearini racconta di una madre assente e di una figlia persa nell’assenza
“I passi di mia madre” ci porta ancora una volta a Milano, la città che sta alle spalle dei sogni e delle disillusioni dei protagonisti di tante storie di Elena Mearini.
Qui vive Agata, quarant’anni, nata nel momento in cui la città stava per esplodere di magnificenza e diventare la Milano “da bere”, cresciuta nell’assenza di una madre che ha l’ha abbandonata col padre quando aveva tredici anni, senza preavviso alcuno e senza un apparente motivo.
Un lavoro da editor e il sostegno economico fornito dal padre le permettono di vivere senza preoccupazioni economiche ma non felicemente.
Della scomparsa di sua madre Agata non sa nulla, se non che il padre ad un certo punto aveva accettato con rassegnazione il dato di fatto e di lei non si era più parlato.
Crescere così ha comportato una serie di scelte volte a cercare una compensazione, un concreto che andasse a riempire l’astratto di una parola come assenza, buona a indicare un vuoto che si preannuncia abissale.
Elena Mearini si muove con destrezza nei meandri della mente, conosce le perverse dinamiche che vedono nel cibo una compensazione aleatoria, di una durata così breve che niente è poi più forte dell’impulso a liberarsi del medesimo cibo, a vomitarlo fuori da sé, rinnegandone l’utilità.
C’è lo Xanax sempre a portata per placare la fame di vita, c’è un uomo come Samuele che predica amore e concede spazi minimi ritagliati da una vita di cui Agata non fa e non farà mai parte, con ogni probabilità, c’è Marco, il vicino di casa con cui giocare di sesso e non d’amore, per placare il desiderio di una qualsiasi forma di attenzione e accudimento.
Nel quartiere cinese di Milano Agata vive così, sapendo di sé che “ci sono giorni in cui mi alzo dal letto e incomincio a fare le cose senza una ragione, mi muovo solo per ricordarmi che esisto oppure per dimenticarmene, non l’ho ancora capito.”
Quando cammina per Milano cerca in volti sconosciuti il viso della madre, nella assurda speranza che possa essere ancora lì, dopo tutti quegli anni, pronta ad amarla sul serio, perché non si smette mai di mendicare l’amore di una madre i cui passi sono solo segnati dal silenzio.
Il suo lavoro da editor le permette di vivere di rimbalzo tutte le vite inventate dagli scrittori, tutte finzioni che hanno un finale da scrivere a proprio piacimento, a differenza di ciò che accade nelle sue giornate.
Eppure anche lei ha provato a inventare un finale, anche se non consolatorio: a tutti racconta che sua madre è morta in un incidente automobilistico, arsa tra le fiamme, trasformata in cenere e fumo, dal momento che nessuna delle segnalazioni fatte su di lei aveva avuto un riscontro reale.
Nel vuoto delle giornate vissute in attesa di qualcosa o qualcuno Agata prende una decisione: scriverà delle lettere a sua madre, nelle quali proverà a inventare una storia della sua vita, quella che più le piace, che la vede pentita per la fuga al seguito di un uomo indegno e nascosta nel silenzio di un convento, quello di Santa Giulia nell’entroterra di Rapallo, uno dei tanti luoghi in cui si diceva fosse stata avvistata.
“ Scriverò la storia di mia madre. Devo capire cosa l’ha spinta a rimuovermi dalla sua vita come fossi stata una di quelle macchie d’unto attorno ai fornelli che lei proprio non sopportava. Forse aveva bisogno di cancellarmi per cancellarsi e nessuno di noi si è mai accorto di quanto odiasse ogni singola riga della sua vita.”
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Scrivere è denudarsi, è sfuggire all’inganno delle menzogne quotidiane, è dare nuovi volti e nuove vite ai fantasmi che popolano i giorni e le notti scanditi dallo Xanax: scrivere diventa per Agata una forma di terapia, scrive a sua madre come se conoscesse la vita che ha vissuto, come se la vedesse muovere i suoi passi tra le mura del convento a Rapallo, nel silenzio della regola e della muta preghiera.
Agata sa che nell’assenza ha coltivato le sue ossessioni, i suoi amori sbagliati, la sua ricerca di una concretezza, di passi che rimbombino in una casa vissuta e condivisa.
Attraverso le parole che scrive torna a pronunciare il suo nome, Lucia, quello della santa che seppe attraversare indenne il supplizio e che diventa segno di una possibile redenzione, nella fantasia ormai inarrestabile di una figlia che non sa come placare la sua fame d’amore.
In fondo Agata vorrebbe solo sapere, capire che cosa abbia spinto la donna che l’ha partorita a staccarsi da lei chiudendo una sera qualsiasi la porta alle sue spalle, senza un bacio o una carezza.
Parola dopo parola la storia assume una sua forma quasi reale e avvolge Agata nelle sue spire: non è più solo il desiderio di immaginare, è quello di fare, andare, viaggiare per provare a toccare con mano, a far cadere il velo di un’illusione, qualsiasi cosa essa nasconda.
Nella ricerca della verità Agata trova finalmente il nodo che solo lei più sciogliere, e lo scioglie, lasciando che nei suoi giorni trovino posto solo le persone che hanno il diritto di starci, quelle che restano anche quando altrove è più facile, quelle che “sono facce che sanno stare sia dentro la testa che fuori, di fronte e accanto a te. Le puoi pensare sapendo di poterle vivere”.
E tanto basta per vivere.
TITOLO : I passi di mia madre
EDITORE : Morellini
PAGG. 160, EURO 15,90