Giorno della Memoria 2019, ancora un’occasione per non lasciarsi alle spalle un passato ingombrante, scomodo, capace di far dubitare dell’animo umano e delle sue propensioni.
Cinquecento anni fa Niccolò Machiavelli non ebbe esitazioni nel definire l’uomo un essere intrinsecamente malvagio, homo homini lupus, capace di agire nei confronti dei suoi simili come un predatore istintivo agisce sulle sue prede, sbranandole e non provando rimorso.
L’uomo, scrisse lo scopritore dell’arte della politica, messo di fronte al potere, alla sua possibilità di prevalere sui suoi simili, alla necessità di eliminare gli ostacoli sulla sua ascesa verso il potere stesso non ha dubbi, li calpesta e ubbidisce all’uomo che primeggia, quello che sa essere leone e volpe, forte e astuto.
Che cos’è stato, ciò che si è verificato nel tragico contesto del secondo conflitto mondiale, se non una esemplificazione terribile della teoria machiavellica?
Un uomo solo ha dominato le menti e serrato il cuore di un popolo rendendolo carnefice, autore del più grande genocidio a memoria della storia dell’uomo.
La storia antica ci ha insegnato come il popolo ebraico abbia vissuto un esodo capace di sradicarlo dalla sua terra, ma la nostra storia, quella dei nostri padri e dei nostri nonni, ci ha mostrato un orrore ben più profondo, la decisione presa a tavolino di spazzare via un popolo, colpevole realmente solo delle sue origini, adottando la “soluzione finale”, che non avrebbe dovuto lasciare tracce.
E invece, lo sappiamo bene, queste tracce sono rimaste, hanno sconvolto gli animi dei soldati dell’Armata Rossa che il 27 gennaio giunsero nei pressi del campo di concentramento di Auschwitz, trovandosi di fronte a ciò e a chi i tedeschi non erano riusciti ad eliminare prima della loro fuga precipitosa.
Sebbene il genocidio ebraico non sia stato, purtroppo, l’unico nella Storia, è giusto e doveroso ricordarlo con il Giorno della Memoria, per restituire a un popolo un passato che il negazionismo ha tentato di soffocare e per dare un segnale forte alle generazioni presenti e future, che sembrano aver scordato che il Male non assume sempre la stessa forma, affinchè un nuovo olocausto non possa riproporsi, magari non nelle camere a gas e nei forni ma, ad esempio, in mare.
Leggere le testimonianze dei sopravvissuti può essere un primo e importante passo in questa direzione, come ci ha insegnato Primo Levi attraverso il libro simbolo del Giorno della memoria, “Se questo è un uomo”.
Giorno della Memoria: “Il tatuatore di Auschwitz” di Heather Morris
I deportati nei campi di concentramento e di sterminio venivano privati non solo dei loro beni (quei pochi rimasti nelle loro mani dopo aver abbandonato tutto il possibile nelle stazioni ferroviarie da cui partivano i vagoni zeppi di vittime predestinate), ma anche e soprattutto della loro identità.
Non erano più persone, ma soltanto numeri, riconoscibili a vita mediante il tatuaggio posto sul loro avambraccio sinistro.
A realizzarlo erano altri prigionieri, dopo che i timbri di metallo, vero strumento di tortura sul petto, erano stati abbandonati a favore di un doppio ago nell’avambraccio.
Uno di loro, Ludwig Eisenberg, detto Lale, sopravvissuto alla sterminio in virtù del suo ruolo, una volta salvo non riuscì a rendere pubblica la vicenda di cui era stato non solo testimone, ma anche protagonista, ritenendosi ingiustamente colpevole di una qualche forma di collaborazione con gli aguzzini tedeschi.
Solo in anni recenti ha dato voce alla sua memoria permettendo alla scrittrice australiana Heather Morris di raccogliere la testimonianza e di trasformarla in un romanzo di memorialistica, “Il tatuatore di Auschwitz”.
Entrato nel campo nel 1942, Lale ne uscì un paio di giorni prima dell’arrivo dei russi, lasciandosi alle spalle un tempo durante il quale era riuscito a sopravvivere grazie all’essere diventato capo tatuatore, al conoscere diverse lingue e all’arte dell’arrangiarsi che aveva affinato non solo a proprio vantaggio, ma anche al fine di aiutare altri deportati.
Ottimista contro ogni evidenza, obbligato a collaborare anche col dottor Mengele, Lale trovò in Gita, una giovane che sottopose al tatuaggio, un motivo per sperare: il racconto dei tre anni nel campo si snoda tra orrori e piccolissime gioie, come poter vedere Gita e parlarle, comunque sufficienti per non abbandonarsi alla disperazione e continuare a sentirsi un uomo e non solo un numero.
A guerra finita Lale riuscì a ritrovare Gita e a sposarla, lasciando l’Europa e il loro passato alle spalle, ma il suo non fu un eroismo particolare, fu invece la giusta lotta per la sopravvivenza che ogni deportato metteva in atto quotidianamente, sapendo che l’atto d’eroismo più importante sarebbe stato quello di sopravvivere un altro giorno.
Se Lale ebbe la buona sorte di evitare la camera a gas e i forni, come accadde a una piccola percentuale di ebrei internati, fu per un caso, non certo per spirito di collaborazionismo: vide morire migliaia di persone, imparò come tutti a passare a fianco dei cadaveri senza farsi travolgere dal dolore, lottò per sé e per Gita con tutta la forza dei suoi venticinque anni e sconfisse il nemico, ma non il ricordo di quanto aveva vissuto, che lo accompagnò per più di sessant’anni, sino alla vecchiaia e alla morte.
Giorno della Memoria: “Un sacchetto di biglie” di Joseph Joffo
Che cosa significa essere uno dei bambini dell’Olocausto? Come può un bambino stravolgere la sua esistenza da un giorno all’altro, passando dalla serenità alla paura, dalla gioia di vivere al terrore della morte?
A queste domande si può rispondere leggendo in occasione del Giorno della Memoria un romanzo di memorialistica scritto da Joseph Joffo, recentemente scomparso in Francia, dove era nato nel 1931 da una famiglia ebrea.
La sua infanzia si interruppe bruscamente con l’occupazione tedesca di Parigi, ove viveva, da cui fuggì per volontà dei genitori insieme al fratello per sottrarsi ai rastrellamenti.
Come Lale, anche Joseph tenne custoditi i suoi ricordi per un trentennio, così come accadde a molte altre vittime della guerra e del nazismo, che solo a fatica riuscirono a trasformare in pubblico il loro privato, come se, non parlandone, esso avesse potuto essere rimosso o celato, quasi fosse una colpa.
Joseph decise così a posteriori di raccontare il rocambolesco viaggio verso il sud della Francia insieme al fratello Maurice di poco più grande e il tempo trascorso tra fughe improvvise, arresti da parte dei tedeschi, aiuti insperati e perdite incolmabili (come quella del padre mai tornato da Auschwitz) nel romanzo “Un sacchetto di biglie”, in cui queste ultime diventano il correlativo oggettivo di un tempo della vita mai più recuperato.
Per quanto edulcorato dall’essere un romanzo, la storia di Joseph Joffo colpisce profondamente perché è narrata con lo spirito del bambino di Parigi, con l’inconsapevolezza di chi non capisce la motivazione di una stella gialla a sei punte cucita sul cappotto e comprende troppo presto quanto il Male sia privo di giustificazioni reali.
Tratto dal libro, il film del regista Christian Duguay.
Giorno della Memoria, La signora dello zoo di Varsavia di Diane Ackerman
Se la sofferenza e la sconfitta hanno avuto un ruolo predominante nella storia degli ebrei europei, è giusto, nel Giorno della Memoria, non dimenticare il lieto fine che alcune vicende hanno avuto permettendo alle vittime predestinate di mettersi in salvo.
E’ in questa chiave che va letta la storia di Antonina Żabińska e di suo marito Jan, raccontata da Diane Ackerman nel romanzo “La signora dello zoo di Varsavia”.
Nel 1939, all’atto dell’occupazione della Polonia, i coniugi gestivano lo zoo della città di Varsavia, dove stava per abbattersi la scure nazista.
Amanti degli animali, rispettosi della loro necessità di vivere fuori dalle gabbie ma in ambiente protetto, Antonina e Jan si videro costretti a sopportare un programma di allevamento selettivo per la struttura, contemplato nel folle programma nazista di incursione nella genetica.
Ma quando compresero ciò che stava succedendo all’interno del ghetto della città non esitarono a trasformare l’intricato labirinto dello zoo in un rifugio per ebrei, cercando di salvarne il maggior numero possibile, mettendo anche a rischio la propria incolumità.
La scrittrice ha recuperato le fonti accreditate per dare fondamento alla vicenda e l’ha pubblicata, perché anche Antonina e Jan, a cui più di trecento persone devono la propria vita, operarono nel silenzio, senza clamore, senza trasformarsi in eroi pubblici alla fine del conflitto.
Quanti uomini e donne di cui non conosciamo la storia si comportarono come Antonina e Jan, come Lale, come le famiglie che aiutarono Joseph e Maurice?
Sicuramente molti di più di quelli che conosciamo, come Schindler o Perlasca o Gino Bartali, ma ogni vita umana sottratta dalle mani dei nazisti fu una vittoria, fu una sconfitta per coloro che erano riusciti a fare del Male il loro credo.
La storia di Antonina e Jan è raccontata anche in un film di Niki Caro.