Marco Dardanelli, geometra secondo quanto dichiara il suo titolo di studio, artigiano nel suo laboratorio di falegnameria e scrittore per passione, nasce a Torino nel 1955, quando la città si stava avviando verso una modificazione profonda a livello sociale, frutto della ripresa economica del secondo dopoguerra.
Grigia e sonnacchiosa, profondamente sabauda nel suo (non troppo aureo, in quegli anni) isolamento, si apprestava a diventare la città della Fiat, degli Agnelli per antonomasia, delle migliaia di operai che arrivavano da ogni parte d’Italia allettati dalla possibilità di un lavoro stabile.
Raccolta nel suo splendido centro storico, pur provata nella sua identità dai postumi della decisione di toglierle, circa un secolo prima, il titolo di capitale del Regno d’Italia, era circondata da una periferia poco curata, confinante con una seria di paesi, paesini e paesacci che oggi non esistono più, essendone diventati parte integrante quando raggiunse il milione di abitanti.
Oggi la sua identità è un’altra, così come la sua architettura, ma a chi percorra l’anello della sua tangenziale non possono sfuggire i tanti palazzi che la affiancano, costruzioni tipiche di quegli anni, quando la praticità e non l’estetica muovevano i progettisti.
In quella Torino cresce Marco Dardanelli, da genitori di origine cuneese, con i nonni che non hanno lasciato la campagna e le vigne delle origini, dove è sempre bello, per un bambino, trascorrere il tempo estivo.
Di una parte della sua formazione, quella avvenuta nel decennio 1960-1970, ha mantenuto un ricordo così vivo da volerlo trasformare in un lungo racconto autobiografico, “La luna nel quartiere. Gagnu malefic nella Torino anni ‘60”.
Un cortile, una via, un quartiere: la geografia di Marco Dardanelli
Quanti anni impieghiamo, nella nostra infanzia, a capire che il mondo è altro da noi e che soprattutto noi non ne siamo il centro? Molti, tutti quelli che servono per lasciarci alle spalle l’età della spensieratezza per entrare in quella del giudizio.
Marco Dardanelli comincia il suo personalissimo “amarcord” da via Gubbio, quartiere Madonna di Campagna, periferia nord-ovest di Torino, dove visse sino al 1970 insieme ai suoi genitori.
Dal piccolo alloggio inizia la sua scoperta del mondo, attraversando le fasi che sono state proprie di tutti i bambini di quegli anni: la prima autonomia coincide con il permesso di poter scendere a giocare in cortile, per poi ottenere solo in un secondo tempo quello di poter uscire nella strada e infine muoversi nel quartiere.
E’ un mondo ovattato, quello che ci descrive nei primi capitoli del romanzo: la vita scorreva molto più lenta di oggi, pericoli incombenti sembrava non ce ne fossero, i soldi erano pochi e ci si accontentava della fantasia, per poter giocare.
Eppure in questo contesto povero di stimoli esterni i bambini diventavano adolescenti forti, ascoltando i racconti di guerra dei propri padri, osservando il lavoro nelle officine vicino a casa, frequentando una scuola in cui, a volte, lo scapaccione della maestra serviva a mettere a posto le cose.
Nei quartieri si mescolavano famiglie provenienti da ogni parte d’Italia, alcune delle quali molto povere, che provavano la solidarietà dei vicini, degli amici, delle parrocchie.
Possedere dei giornalini a fumetti da leggere seduti in terra tra amici è già molto per i ragazzini di via Gubbio, che ogni tanto escogitano imprese pseudo-eroiche per ammazzare la noia, ignari delle conseguenze che potrebbero avere (come lanciare palline di acqua e fango contro i finestrini aperti dei treni in arrivo alla stazione).
Sono anni in cui ogni novità è sinonimo di festa, di progresso, di miglioramento: il primo veicolo del papà di Marco è l’Isomoto, parcheggiata sotto il balcone della cucina a piano rialzato, ma poi arriveranno la 500 di seconda mano, quella nuova blu oltremare e infine una 127, insieme alla radio, al televisore, al mangiadischi, al telefono, al giradischi, una carambola di novità senza fine.
Di ognuna di esse si corre a parlare con gli amici, per condividerle insieme, perché gioirne con la banda di via Gubbio è diverso dal farlo coi genitori.
In questa piccola geografia, tra un’ avventura e l’altra, Marco Dardanelli cresce imparando che le “femmine” sono infingarde, che tra amici possono volare anche i pugni, che essere il più piccolo di tutti ha molti svantaggi, ma anche che bisogna difendere e coltivare la proprie passioni, nel suo caso la musica.
Si impara che i bambini, in arrivo dalle stelle, non vengono comprati dai genitori insieme a un cavolo, che i pregiudizi sono fatti per essere sfatati ( come succede con il pazzo del quartiere), che un mondo intero può ruotare attorno a una strada, un viale, una chiesa, altro fattore aggregante.
Ai bambini come Marco Dardanelli non serve andare molto lontano, quando un intero mondo è a loro disposizione oltre un cortile di cemento e un cancello che non è più una barriera.
Gli amici di via Gubbio, protagonisti del racconto di Marco Dardanelli
Delle prime infelici amicizie di cortile Marco non ha un buon ricordo, perché sono tre bambine, Emi e la gemelle, che lo trasformano nel loro bambolotto vivente e in un utile capro espiatorio.
Bisogna attendere che compaiano i maschi per cementare l’amicizia: Nichi, emigrato con la sua famiglia da Salerno, Rob Rob, di origini venete, e Giambu, l’unico torinese del gruppo. In ultimo si aggiungerà Banzai, anche definito il pazzo del quartiere, capace di difendere tutti gli altri coi fatti, mentre il soprannome di Marco Dardanelli sarà Marcuse, per la sua capacità diplomatica di negoziare con altre bande della zona.
Il quintetto attraversa tra burrasche e sereno tutto il decennio dei Sessanta, si ritrova per scambiare i fumetti, per discutere di musica, campo in cui l’autorità di Marcuse è indiscussa e indiscutibile, tra complessi italiani e stranieri che conquistano le classifiche. Si comperano, quando si può, i 45 giri che vengono consumati nei mangiadischi, si registrano le canzoni dalla Hit Parade della radio, si affronta per la prima volta la morte di una persona cara come il nonno, si scopre che il mondo delle ragazze può essere meno sgradevole di quanto si era immaginato.
Si cresce poco alla volta nel corso di un decennio, al termine del quale le strade si dividono, letteralmente: le famiglie hanno risparmiato lavorando sodo e il miraggio di una casa propria al posto delle due stanzette di via Gubbio diventa realtà per i Dardanelli, che si trasferiscono nel Canavesano, dove avrà inizio una nuova fase della loro vita.
Ma la formazione di Marco è avvenuta proprio in quel quartiere, di cui porterà con sé tutti i ricordi recuperati per il romanzo, narrati con una freschezza che li rende vivi, palpitanti, come se non fossero passati quasi cinquant’anni da allora.
I “gagnu malefic”, espressione del dialetto piemontese con cui si identificano i ragazzini un po’ troppo esuberanti, hanno lasciato il posto a degli adolescenti pronti ad un nuovo percorso, mentre anche Torino si prepara a vivere un nuovo decennio, gli anni Settanta, molto più traumatico e meno ricco di sogni e di speranze di quello precedente.
Ma questa è tutta un’altra storia.
TITOLO : La luna nel quartiere
EDITORE : Editrice Tipografia Baima-Ronchetti & C.
PAGG. 392, EURO 15,00