Umanizzazione delle cure: tutte le strade per aggredire la neoplasia
Umanizzazione delle cure in oncologia: un traguardo importante, sempre più vicino, da raggiungere con un approccio multidisciplinare. Si è reso necessario, in argomento, un dialogo a più voci, che aggredisse la neoplasia come fenomeno legato al corpo, ma anche all’ambito psicologico e sociale. Una coralità che fa un passo avanti, verso le necessità intrinseche alla condizione del paziente.
Umanizzazione delle cure in oncologia: un manifesto
E’ stato creato un manifesto in questo senso: un documento che intende definire un approccio integrato volto a coniugare il progresso scientifico alla cura della persona nella sua interezza. Lo ha presentato e promosso, in particolare il 19 luglio in Roma, Merck: ecco un punto di partenza, al fine di promuovere il dialogo tra specialisti.
L’obiettivo è favorire la centralità del paziente nel percorso terapeutico, nell’era della medicina di precisione.
Si è espresso un panel di esperti, con rappresentanti dell’Associazione italiana di Oncologia medica (Aiom); della Federazione italiana delle associazioni di volontariato in Oncologia (Favo); dell’Istituto europeo di Oncologia (Ieo) e dell’Università degli Studi di Milano, nonché della Società italiana di Farmacia ospedaliera (Sifo).
Attività fisica? Un toccasana durante il ciclo
Per molte donne il ciclo mestruale è un deterrente allo svolgimento dell’attività fisica. La temporanea sospensione…Umanizzazione, neoplasie e sopravvivenza
Attività fisica? Un toccasana durante il ciclo
La diagnosi di tumore riguarda circa mille persone, ogni giorno, in Italia. Il trend di sopravvivenza è migliorato per tutti i tumori, dal 1994 al 2011.
Gli strumenti prognostici innovativi individuati e i progressi terapeutici spiegano il miglioramento.
Avanziamo via via, dunque, lungo il percorso del manifesto. Le terapie oncologiche progrediscono e devono diventare via via più semplici da sostenere per il soggetto esposto a neoplasia, nel rispetto del diritto alla salute; le cure devono essere umanizzate, come detto, e il modello bio-psico-sociale deve essere applicato; la comunicazione medico-paziente deve essere efficace e deve avvenire il patient empowerment. Tutto ciò è possibile per mezzo della valutazione partecipata dell’umanizzazione e grazie al maggior contributo del volontariato.
Umanizzazione: lotta alle neoplasie e selezione delle informazioni
Il paziente in internet deve essere guidato: a ottenere fonti certificate e applicazioni dedicate di livello (tra le quali l’app “La mia voce”, per i pazienti colpiti da tumore della testa e del collo) e a raggiungere il centro qualificato più vicino per la propria patologia. Devono essergli indicati i siti da privilegiare nella ricerca. Non bisogna dimenticare, in ispecie, i link delle associazioni dei malati. Gli operatori della comunicazione hanno un ruolo imprescindibile. Il linguaggio medico deve essere tradotto per il paziente e bisogna strutturare la relazione in funzione di una comunicazione efficace, che si consulti o meno il ‘dottor Google’. Ecco chi lo afferma.
Umanizzazione delle cure in oncologia: la parola ai protagonisti
Gabriella Pravettoni è professore ordinario di Psicologia delle Decisioni all’Università degli Studi di
Milano, direttore della Divisione di Psiconcologia dell’Istituto europeo di Oncologia di Milano, vicedirettore del Dipartimento di Oncologia ed Emato-oncologia (Dipo) dell’Università degli Studi di Milano, coordinatore del dottorato Folsatec (Foundations of the life sciences and their ethical consequences) presso Semm (European school of Molecular medicine) a Milano, responsabile della Psicologia alla European school of Oncology (Eso) della Svizzera, presidente del Corso di laurea in Scienze cognitive e Processi decisionali, Unimi, bvisiting professor presso il King’s College di Londra, membro del board scientifico di ecancermedicalscience, Regno Unito. E’ membro di numerose società scientifiche. Le sue ricerche, svolte per la maggior parte presso l’Istituto Europeo di Oncologia sia a livello nazionale che internazionale, si concentrano principalmente sulle medical humanities, avendo come focus principale l’empowerment e il benessere del paziente, i processi cognitivi, le decisioni in medicina e la prevenzione dell’errore. Queste le sue parole.
Patient empowerment nel rispetto della relazione: come avviene nella pratica?
Parliamo di bisogni individuali e sociali.
L’empowerment è un processo sociale che consiste proprio nel riconoscere e valorizzare le capacità delle singole persone di soddisfare i propri bisogni, risolvere i propri problemi, e mobilitare le risorse necessarie per prendere il controllo della propria vita. Nel settore sanitario si traduce nella partecipazione del paziente al suo percorso di cura, laddove il paziente diventa coinvolto, informato, collaborativo e tollerante d’incertezza. Tuttavia i pazienti dovrebbero essere motivati internamente, più che esternamente, ed è per questo che nella pratica deve essere promossa la componente “educativa” che mira ad aumentare la capacità di pensare in modo critico ed agire in modo autonomo. Il patient empowerment richiede informazioni adeguate fornite da un medico o un operatore sanitario empatico, cioè in grado di rispondere almeno in parte alle richieste, esplicite o implicite del paziente, considerando i bisogni, i valori e le aspettative in modo tale da raggiungere delle decisioni con l’approvazione del paziente stesso. Le informazioni devono essere inoltre fornite in un linguaggio comprensibile con accesso a strumenti, anche visivi, per valutare domande e opzioni.
Questo processo può portare a cambiare il tipo di relazione tra paziente e medici, da un rapporto più paternalistico verso un rapporto di condivisione e consapevolezza.
Si passa da modelli medici a modelli bio-psicosociali: come cambia di conseguenza la prassi medica? Come deve esprimersi lo specialista oncologo in chiave dialogica, quando risponde alle domande? In che modo il paternalismo cade?
Nel modello biomedico la malattia viene vista come una deviazione rispetto alla norma biologica: la malattia deve essere trattata come entità indipendente dal comportamento sociale, tenendo conto delle deviazioni comportamentali attraverso processi somatici, enfatizzando così la funzione del medico e una visione passiva del paziente. Nel modello biopsicosociale si tengono invece in considerazione i fattori biologici, psicologici e sociali nel valutare lo stato di salute di un paziente. Per il modello biopsicosociale la valutazione dello stato di salute di un individuo viene contestualizzata all’interno dell’ambiente in cui vive, attraverso un approccio sistemico. Tale approccio sottolinea la complessità della salute, valorizzando l’importanza dell’interdisciplinarità.
Nel modello biomedico si assisteva spesso ad una dinamica comunicativa centrata sul medico: il medico fa domande e raccoglie le informazioni utili, con un flusso comunicativo quasi prettamente unidirezionale.
Il modello biopsicosociale prevede invece una tecnica dell’intervista centrata sul medico e sul paziente contemporaneamente: il medico raccoglie le informazioni utili, ascolta e facilita attivamente il paziente, sintetizza e verifica la comprensione del paziente, conferma o corregge in base ai feedback di quest’ultimo. Il medico spiega ulteriormente se necessario, informa Il paziente ascolta e comunica di aver ricevuto e compreso il messaggio (feedback). Infine sollecita eventuali domande. L’obiettivo è inoltre quello di stabilire una relazione aperta tra medico e paziente, che permetta loro di lavorare insieme sul migliore piano di trattamento e favorire l’aderenza ai trattamenti. La soddisfazione del paziente rispetto alla comunicazione con il medico ha un effetto positivo anche sulla qualità della vita che, insieme alla sopravvivenza, costituisce l’obiettivo più importante della terapia.
Meccanismo decisionale del medico e meccanismo decisionale del paziente: qual è la loro evoluzione?
In precedenza l’attenzione del medico era principalmente posta su problemi specifici legati alla malattia. Oggi si pone invece l’obiettivo di rendere più sicuro il sistema, di coinvolgere il paziente, creando un processo decisionale “condiviso” o “shared decision making” (Sdm). L’approccio condiviso comporta l’interazione tra medico e paziente in tutte le fasi del processo decisionale. Lo scambio di informazioni è bilaterale: il medico fornisce informazioni circa i trattamenti sanitari, mentre il paziente dà informazioni riguardo alla sua malattia. Entrambi esprimono le proprie opinioni circa le preferenze per l’uno o per l’altro trattamento, ed entrambi, insieme, elaborano la decisione. La consultazione medica è dunque un incontro tra “due esperti”: il medico conosce la malattia in generale, il paziente conosce e vive nella quotidianità la sua malattia e tutto ciò che essa comporta. Il paziente è detentore di insostituibili informazioni inerenti la sua individualità di malato.
Il medico del terzo millennio, quindi, conosce e rispetta le preferenze del paziente andando a favore dell’umanizzazione delle cure. Collabora con il paziente per raggiungere una decisione condivisa, dopo aver valutato rischi e benefici delle diverse opzioni terapeutiche, al fine di avere il migliore outcome clinico.
Tuttavia, nonostante l’Evidence-based medicine (Ebm) e processo decisionale condiviso (Pdc) o shared decision making, siano due competenze professionali fondamentali per migliorare la qualità dell’assistenza e l’esperienza di cura dei pazienti, la loro messa in pratica è condizionata dalla mancanza di formazione su come comunicare con il paziente in maniera appropriata nelle diverse situazioni cliniche.
Come si risolvono le problematiche legate all’accesso a internet del paziente, poste le difficoltà date dall’attendibilità dell’informazione? Come selezionare le fonti?
Internet può rappresentare una preziosa risorsa ed una fonte di informazione a cui il paziente si rivolge per avere una migliore comprensione della propria situazione. Il paziente attivo e curioso è infatti motivato a raccogliere dati e informazioni.
Il problema dell’attendibilità delle fonti è certamente rilevante.
Ad oggi si trovano moltissimi siti che discutono di argomenti medici, senza essere stati costruiti con un’adeguata competenza. Le fonti da considerarsi attendibili in rete devono infatti mostrare che il contenuto del sito ed i messaggi veicolati siano stati pensati, costruiti o supervisionati da professionisti della salute o da enti sanitari riconosciuti.
È necessario in primo luogo che il paziente trovi il proprio spazio di ascolto e di confronto nella relazione e nel dialogo col proprio medico curante; all’interno di questo spazio il medico potrà suggerire ed indicare quali informazioni aggiuntive cercare e come reperirle su internet. Un paziente che possa usufruire di una comunicazione aperta col proprio medico sarà inoltre più propenso a sottoporre dubbi e perplessità e a confrontarsi con lui con fiducia rispetto a quello che trova su internet.
Michele Ghidini, dirigente medico Uo di Oncologia, dipartimento oncologico, Asst di Cremona, è specializzato in Oncologia medica all’Università di Milano. Nell’ambito proprio della ricerca, i suoi interessi spaziano dall’Oncologia gastrointestinale all’applicazione di biopsie liquide in Oncologia (un semplice prelievo di sangue venoso permette di eseguire analisi molecolari quando non è possibile disporre di tessuto tumorale, ndr), alla terapia a bersaglio molecolare. Lo abbiamo raggiunto e intervistato. Di seguito, le risposte alle nostre domande.
Come la human based oncology si coniuga con la pratica specialistica?
Attraverso le indagini molecolari che mirano a definire le caratteristiche genetiche del tumore del paziente. Ottenuto questo risultato, è valutabile l’utilizzo di nuovi farmaci biologici antitumorali aventi come bersaglio le mutazioni, amplificazioni od alterazioni di espressione di geni evidenziate nel singolo paziente.
Si promuove la medicina di precisione con le terapie a bersaglio molecolare. Potrebbe illustrarci il progresso compiuto?
I farmaci a bersaglio molecolare agiscono su un biomarcatore evidenziato mediante analisi molecolari del tumore del paziente. Questo biomarcatore (mutazione di un gene, ad esempio) è spesso un meccanismo fondamentale della crescita tumorale. Il biomarcatore diventa il bersaglio della terapia antitumorale e qui sta il meccanismo innovativo: la chemioterapia agisce su tutte le cellule in attiva replicazione (sane e malate), mentre le nuove terapie biologiche agiscono unicamente sulle cellule malate aventi le alterazioni genetiche evidenziate.
Qual è la svolta proposta con i farmaci biologici? Ci parli dei minori effetti collaterali che essi prevedono.
I farmaci biologici non determinano le tossicità tipiche della chemioterapia classica, ovvero nausea, vomito e perdita dei capelli. Non sono tuttavia affatto scevri da effetti collaterali. Tra i principali eventi avversi vi sono: stanchezza, diarrea, tossicità cutanea che talvolta ricorda un’eruzione acneiforme, tossicità cutanea alle mani ed ai piedi con desquamazione, disidratazione ed alterazioni delle unghie, iperglicemia ed ipertrigliceridemia.
Le biobanche, unità di servizio senza scopo di lucro, forniscono tessuto biologico disponibile in qualsiasi momento: come funzionano nei dettagli e perché costituiscono un passo in avanti?
Le biobanche conservano le informazioni cliniche e il materiale biologico (sangue, tessuti, urine) dei pazienti a fini clinici e di ricerca. Sono regolamentate dal comitato etico dell’ente ospedaliero a cui appartengono e solitamente si rifanno a requisiti di conformità e qualità elencati dalle principali società scientifiche del settore. Aiom (Associazione italiana Oncologia medica) e Siapec (Società italiana Anatomia patologica e Citologia diagnostica) ad esempio, hanno redatto un documento che elenca i requisiti minimi di una biobanca oncologica di ricerca. Sono strutture essenziali per lo sviluppo della medicina di precisione, perché consentono l’utilizzo del materiale biologico del paziente in qualsiasi momento per condurre analisi molecolari a fini clinici e/o di ricerca.