Medicina Interna: uno studio ha delineato i fattori clinici nei pazienti Covid
Esistono degli elementi rilevabili nei pazienti ricoverati per Covid-19 che permetto di delineare l’evoluzione clinica della malattia e prevedere l’evento finale (dimissione o decesso) per ogni singolo paziente?
A questa domanda prova a dare una risposta scientifica un articolo pubblicato sulla rivista internazionale Internal and Emergency Medicine.
Che trae spunto dall’analisi dei dati del Registro multicentrico dei pazienti adulti ricoverati tra febbraio e maggio 2020 nei reparti di Medicina Interna in Italia.
“La Società Italiana di Medicina Interna ha promosso e progettato il Registro.
Perché durante questa situazione di emergenza epidemiologica e di grande stress delle strutture e del personale ospedaliero, era di estrema importanza registrare e analizzare tutti gli elementi clinici disponibili.
Questo per poter prevedere la traiettoria clinica dei pazienti ospedalizzati con Covid-19 e meglio indirizzare l’assistenza medica e gli interventi terapeutici.
Ne è risultato un lavoro su una casistica unica in letteratura: più di 3.000 pazienti interamente gestiti nelle Medicine Interne”, dice il professore Antonello Pietrangelo, Presidente della Società Italiana di Medicina Interna.
Medicina interna: lo studio
Lo studio multicentrico e osservazionale a livello nazionale è stato condotto in 41 grandi ospedali di riferimento della Rete Italiana di Medicina Interna durante la prima ondata della pandemia.
Quando l’Italia ha segnalato il secondo maggior numero di casi di Covid-19 al mondo dopo la Cina, e tra i più elevati tassi di mortalità.
Lo studio prende in analisi sintomi e segni precedenti al ricovero, al momento del ricovero e nel corso della degenza ospedaliera.
Oltre che numerose altre informazioni quali:
- Dati demografici.
- Comorbidità.
- Disfunzioni d’organo.
- Terapie.
- Durata della degenza ospedaliera.
- Eventuale ricovero in unità di terapia intensiva.
- Exitus intraospedalieri.
I dati sono stati raccolti utilizzando cartelle cliniche elettroniche e raccolti in un modulo di segnalazione del caso anonimo.
I criteri di inclusione nello studio erano:
- Età superiore a 18 anni.
- Rilevamento dell’acido nucleico SARS-CoV-2 mediante test di reazione a catena della polimerasi a trascrittasi inversa (RT-PCR) in tampone nasofaringeo / altri campioni biologici.
- Una diagnosi epidemiologica di Covid-19, basata sulle caratteristiche cliniche tipiche dell’infezione SARS-CoV-2 (tosse, febbre, mancanza di respiro, insorgenza improvvisa di anosmia / ageusia / disgeusia) in associazione con:
- O un test sierologico positivo per SARS-CoV-2.
- O caratteristiche compatibili con Covid-19 all’imaging del torace (tomografia computerizzata, ecografia o radiografia).
Sul totale dei pazienti ospedalizzati durante la prima ondata pandemica, 1 su 6 è deceduto durante il ricovero. E il tasso di mortalità, generalmente più alto nei maschi che nelle femmine, ha subìto un aumento costante nei pazienti di età superiore ai 70 anni.
Dal 31,3% nel decennio 71-80 al 64,4% nei pazienti di età superiore ai 90 anni.
L’autismo delle bambine è diverso
L’autismo non è uguale per tutti: se è colpito un bambino, oppure una bambina, i comportamenti…Pazienti Covid: i principali sintomi
L’autismo delle bambine è diverso
All’esordio a domicilio, la febbre era il sintomo più frequente. Ma non per il 30% dei pazienti con più di 80 anni e addirittura il 40% degli ultranovantenni.
Evidenziando un alto sospetto clinico per Covid-19 negli anziani, nonostante l’assenza di febbre.
È risultata associata a una prognosi, tra i diversi sintomi iniziali:
- La tosse produttiva, indicativa di coinvolgimento del tratto respiratorio inferiore e/o di superinfezione batterica.
Così come, tra i fattori preesistenti:
- Il numero di farmaci assunti a domicilio.
- Il numero di co-patologie.
Tra queste ultime, quelle con la più elevata capacità predittiva di exitus sono risultate l’insufficienza cardiaca cronica e la malattia polmonare ostruttiva cronica (BPCO).
I predittori più rilevanti al momento del ricovero sono stati identificati:
- Nel numero delle comorbidità: la percentuale di pazienti che hanno ricevuto la supplementazione ordinaria di ossigeno è di fatto risultata aumentare con il numero di comorbidità. Da circa il 60% nei pazienti non-multimorbidi a circa il 90-100% in quei pazienti che presentavano 6 o più comorbidità.
- Nell’entità della compromissione respiratoria, indicata dal rapporto pO2/FiO2, il metodo più rapido per misurare la mancanza di ossigeno e dare valutazione di insufficienza respiratoria.
Lo studio ha anche dimostrato che la normale supplementazione di ossigeno non ha dato benefici significativi nei pazienti con un deficit respiratorio più grave.
In questi ultimi, tanto più precoce è stato invece l’uso della ventilazione meccanica non–invasiva quanto migliore è stata la prognosi finale.
“Questo studio ha il pregio di aver indicato i principali segnali di allarme da cogliere all’ingresso dei pazienti in ospedale.
Per poter indirizzare oggi sia le decisioni cliniche che le assegnazioni delle risorse. Ed essere in grado di agire tempestivamente e prevenire l’evoluzione della malattia.
“I pazienti che continuano ad arrivare in ospedale e ad andare incontro a un decorso ospedaliero più complicato, infatti, sono gli stessi pazienti multi–patologici e in politerapia che abbiamo ricoverato nella prima ondata.
Quelli per cui, giustamente, il Governo ha indicato oggi una priorità nel piano di vaccinazione”, dice Pietrangelo.
Medicina Interna: rimedi e territorio
L’opportunità terapeutica dell’utilizzo degli antivirali contro l’infezione da Sar-Cov2 è tanto più efficace quanto prima si utilizzano alcuni rimedi fin dalle prime fasi dell’insorgenza dell’infezione.
Le esperienze sul territorio nazionale, dimostrano che dove sono stati messi in campo modelli organizzativi che hanno previsto un coordinamento tra ospedale e territorio, i risultati dell’impiego precoce degli antivirali sono stati importanti.
Ed è proprio sull’organizzazione a livello territoriale che si deve scommettere per fare in modo che queste terapie possono aiutare il sistema sanitario a sconfiggere il Covid.
“Il 70% dei pazienti Covid ricoverati sono stati seguiti dalle Medicine interne e il trattamento con Remdesivir è stato fatto in tutti i pazienti eleggibili.
Ora dobbiamo ripartire da quello che ci siamo lasciati indietro:
Circa 550-650mila ricoveri in meno di medicina interna oltre alle altre specialità rispetto al milione di ricoveri annui in Medicina di cui il 56% cronici riacutizzati.
Dobbiamo tener conto del follow up del paziente Covid per le conseguenze respiratorie, cardiovascolari, aterotrombotiche, neurologiche, renali.
Dobbiamo accrescere le competenze per una risposta sub-intensiva al momento delle emergenze.
Considerare l’approccio in area medica in équipe multidisciplinare e pensare a una riorganizzazione delle attività ambulatoriali stimolando la crescita della telemedicina.
Infine, ospedale–territorio è un legame da rafforzare nella quale la medicina interna ospedaliera è il partner naturale della medicina generale territoriale”, spiega Dario Manfellotto, Presidente FADOI.
“L’indicazione è quella di utilizzare l’antivirale il prima possibile.
Oggi Remdesivir è impiegato nei pazienti che sviluppano una insufficienza respiratoria e in ambiente ospedaliero, già in pronto soccorso o nei primissimi giorni di ricovero.
Il suo utilizzo, secondo gli studi clinici, è efficace e si associa a una diminuzione della progressione della malattia se utilizzato nei pazienti con insufficienza respiratoria ancora di grado moderato.
Invece se è utilizzato nelle fasi più avanzate dell’infezione ossia quando il paziente necessita o di intubazione o di tecniche di ossigenoterapia non si associa a un chiaro miglioramento clinico.
Dobbiamo pertanto utilizzarlo velocemente per cercare di ridurre al minimo la replicazione”, dice Andrea Gori, Direttore UOC Malattie Infettive, Fondazione IRCCS Ca’Granda Ospedale Maggiore Policlinico, Milano Professore Ordinario Università degli Studi di Milano.
Le limitazioni sul territorio
È importante passare dalla somministrazione del farmaco antivirale in ospedale alla somministrazione sul territorio, purché in tempi brevi.
Purtroppo esistono dei limiti concreti che attualmente non lo permettono
“Abbiamo in questo momento un farmaco sicuramente efficace che se utilizzato correttamente può essere molto più efficace rispetto a quanto stiamo facendo oggi.
Ma ci sono delle obiettive difficoltà.
Soprattutto il fatto di avere una somministrazione per endovena che ne limita fortemente l’utilizzo al domicilio”, spiega Andrea Gori.
“Esistono importanti problemi non solo legati alla somministrazione di questo farmaco, che dovrebbe essere di pertinenza del medico di medicina generale quando il paziente si rivolge nella fase iniziale della malattia.
Ma anche alla organizzazione che ne consegue, pertanto bisogna delineare il paziente target per questo farmaco per creare così un percorso ospedale–territorio.
Abbiamo strumenti importanti per mettere in campo un percorso organizzativo di questo tipo”, dice Gabriella Levato, MMG Milano.
“La sfida maggiore è sicuramente quella di cercare di comporre quanto più possibile il gap organizzativo che ci può essere in una forma di coordinamento del territorio con le strutture ospedaliere.
L’invito alle regioni è quello di cercare di recuperare rapidamente il coordinamento tra il territorio e le strutture ospedaliere.
Un maggior coinvolgimento organizzativo che consenta di gestire questi pazienti con strumenti che in questo momento si stanno cercando di evidenziare e di utilizzare.
L’esperienza degli anticorpi monoclonali ha reso ancor più forte l’esigenza di un maggior coordinamento tra il contesto ospedaliero e il contesto territoriale.
Ma si tratta di affrontare il problema di gestire le terapie infusionali e di trasferire i pazienti positivi al Covid presso strutture ospedaliere.
Si tratta di considerare un carico organizzativo importante ed è questa è sfida che dobbiamo cercare di vincere”, conclude Pierluigi Russo, Dirigente Ufficio Registri di Monitoraggio, AIFA.