Salvare il fegato dall’epatite C: la sfida non è ancora del tutto vinta. Del resto, l’avversario si nasconde, rimane latente. Che fare, dunque?
Salvare il fegato dall’epatite C: la storia naturale della patologia
Ecco le fasi della storia naturale dell’epatite C: l’infezione acuta e l’infezione cronica.
Quella che si determina immediatamente dopo il contagio è la fase acuta: le difese dell’organismo si attivano in risposta all’agente patogeno, iniziando a produrre anticorpi nel tentativo di debellare l’infezione. La durata può essere anche di diversi mesi, ma nella maggior parte dei casi si tratta di una fase asintomatica della malattia, di conseguenza molto difficile da diagnosticare. Appena nel 5-10% dei pazienti si possono presentare sintomi quali ittero, febbre, vomito e nausea, diarrea, dolore generalizzato e affaticamento. Il sistema immunitario non riesce ad avere la meglio sul virus nel 60-80% dei casi: esso si annida stabilmente all’interno delle cellule epatiche. Si tratta della fase cronica dell’infezione da Hcv: essa può rimanere asintomatica anche per decine di anni. Il 20-35% dei pazienti sviluppa cirrosi epatica e il 5% tumori, tuttavia, dopo 20-30 anni di infezione.
Salvare il fegato dall’epatite C: terapie e prospettive (I DAAs)
Eradicare l’infezione da Hcv dall’organismo: oggi la possibilità esiste.
Esistono farmaci che agiscono direttamente sul virus, anziché stimolare il sistema immunitario per combattere l’infezione. Tali molecole, i cosiddetti DAAs, permettono l’eliminazione del virus nella quasi totalità dei casi (oltre il 95%). In Italia sono disponibili dal dicembre del 2014.
I DAAs hanno determinato una rivoluzione nelle prospettive terapeutiche dei pazienti affetti da epatite C: oltre a essere straordinariamente efficaci, presentano soltanto lievi effetti collaterali. Si somministrano per via orale, in poche compresse giornaliere (con cicli terapeutici di 8, 12 o 24 settimane). Non esistono particolari controindicazioni alla cura: né per chi ha registrato un fallimento di precedenti terapie, né per i pazienti in fase cirrotica avanzata o che presentano gravi problematiche extra-epatiche. Anche chi ha subito un trapianto di fegato, o è in lista per il trapianto, può fare il trattamento.
Salvare il fegato dall’epatite C: quando si può ridurre il danno
Per salvare il fegato dall’epatite C, un elemento è fondamentale: il paziente deve attenersi alle indicazioni terapeutiche dello specialista, rispettando dosi e tempi di assunzione dei farmaci. Eliminando l’infezione da Hcv, si risolvono eventuali altre problematiche extra-epatiche connesse. Si determina, in alcuni casi, anche una riduzione del danno al fegato: si evita così la necessità di trapianto. L’eliminazione del virus, in caso di cirrosi epatica, diminuisce, ma non azzera, il rischio di sviluppare un epatocarcinoma. Si rendono necessari controlli periodici, secondo le indicazioni dello specialista.
Epatite C: che cos’è?
Si tratta di una patologia del fegato causata dall’infezione del virus Hcv: quest’ultimo attacca le cellule epatiche, inducendo uno stato infiammatorio. Le cellule danneggiate dal virus muoiono (necrosi) e vengono sostituite con tessuto cicatriziale. Il processo patologico si chiama fibrosi epatica. Il tempo trascorre e l’infezione compromette la maggior parte del tessuto: causa la cirrosi epatica, uno stato nel quale l’organo non è più in grado di svolgere le proprie funzioni. Il fegato, che è la ghiandola più grande del corpo umano, ha un ruolo fondamentale nel metabolismo e svolge una serie di processi, tra i quali l’immagazzinamento del glicogeno, la sintesi delle proteine del plasma, la rimozione di sostanze tossiche dal sangue. Esso produce la bile, importante nei processi della digestione. Ecco che cosa bisogna sapere, al fine di salvare il fegato dall’epatite C.
Fegato, Hcv: trattamento breve, facile e non tossico
I pazienti con Hcv a oggi trattati, secondo l’ultimo aggiornamento Aifa, sono più di 155mila. Queste le parole di Massimo Galli, professore ordinario di Malattie infettive all’Università degli Studi di Milano, nonché presidente della Società italiana di Malattie infettive e tropicali (Simit): “Considerando che il Piano ministeriale prevedeva 80mila trattati all’anno per 3 anni, risulta evidente come ancora si sia lontani dall’obiettivo. Abbiamo un serio problema di sommerso, cioè di persone che non sanno d’avere l’infezione o che non sanno di poterla eliminare con un trattamento breve, facile e non tossico; un’altra problematica riguarda la facilitazione dell’accesso dei pazienti ai Centri in cui possono essere trattati. D’altro canto, dobbiamo fare i conti con la capacità dei Centri nel sostenere il carico di lavoro. I finanziamenti hanno coperto il costo dei farmaci, ma mancano ancora investimenti in iniziative per l’emersione del sommerso e sul potenziamento dei Centri prescrittori, non foss’altro per ridurre il carico burocratico che a essi compete”.
Fegato, Hcv: parliamo di nuovo del sommerso
Ma dove si trova il sommerso? Nelle cosiddette “popolazioni speciali” e negli anziani. Nel primo caso rientrano persone con dipendenza da sostanze per via iniettiva e/o inalatoria, reclusi negli istituti di detenzione e individui provenienti da paesi nei quali la diffusione del virus è particolarmente alta. Massimo Galli si è espresso in questo modo: “Gran parte del sommerso, del resto, va ricercato seguendo il dato anagrafico. La diffusione del virus è avvenuta nella maggioranza dei casi quando anche in ospedale, o nelle cure domiciliari, non si usavano materiali usa e getta. Il risultato è che ci sono molti anziani Hcv positivi e non lo sanno”. I soggetti in questione sono spesso colpiti anche da altre malattie: per questa ragione, frequentano gli ospedali. Possono diventare un veicolo di trasmissione del virus. Matteo Galli ha dichiarato: “E’ necessario attivare dei protocolli di attenzione nei confronti di questi pazienti, indagare sulla presenza del virus e curarli se trovati positivi, migliorando in questo modo la loro salute generale e prevenendo l’ulteriore diffusione dell’infezione. Le nuove terapie hanno un profilo di tollerabilità che consente di trattare anche persone anziane e con altre malattie”.
Un gruppo particolare è inoltre costituito da coloro che presentano sia l’infezione da Hiv, sia quella da Hcv. In questo caso, l’eliminazione da Hcv è un obiettivo molto vicino. Così ha concluso Galli: “Sono solo qualche migliaio quelli che non sono ancora ‘entrati’ in trattamento per l’Hcv e in larga maggioranza già in contatto con i Centri. Si tratta di fare un ultimo sforzo, reso talvolta più difficile da problemi organizzativi”.
Epatite C e tossicodipendenza: il principale fattore di rischio
Il principale fattore di rischio per l’epatite C è la tossicodipendenza, in Europa e negli Stati Uniti: infatti l’incidenza di infezione da Hcv va dal 50 al 95% tra i tossicodipendenti che fanno uso di droghe per via iniettiva o inalatoria.
Salvare il fegato dall’epatite C: piano di eradicazione nazionale
E’ stato indicato dall’Organizzazione mondiale della sanità un obiettivo comune a tutti i Paesi entro il 2030: la riduzione del 65% delle morti legate all’epatite C e quella di nuovi contagi dell’80%. Che cosa ha fatto il nostro Paese al fine di raggiungere il traguardo? Ha istituito un fondo ad hoc per finanziare le terapie anti-HCV (i nuovi farmaci antivirali cosiddetti DAAs sono totalmente rimborsati dal Sistema sanitario nazionale) all’interno del Piano nazionale di eradicazione. L’Agenzia italiana del farmaco Aifa, inoltre, ha stabilito criteri di eleggibilità dei pazienti.
E’ previsto dal piano il trattamento di 80mila pazienti l’anno nell’arco del triennio 2017-2019. Fino a oggi, secondo Aifa, sono stati avviati 155.361 trattamenti per pazienti eleggibili.
Fegato: come si trasmette l’Hcv
Ma come si trasmette l’Hcv? Tramite il contatto diretto con sangue infetto attraverso una lesione della cute (in sintesi, per via ematica). Se pelle e mucose sono integre, la trasmissione per via sessuale nelle coppie eterosessuali monogame e stabili è virtualmente nulla. Una modalità particolare, anche se molto poco comune (3-5%), è la trasmissione da madre a figlio durante il parto. Essa aumenta di frequenza frequenza aumenta (10-55%) se le madri sono portatrici anche di Hiv. Abbiamo detto che il principale veicolo di infezione è il sangue infetto: i maggiori fattori di rischio sono la condivisione di oggetti appuntiti o taglienti (come rasoi, lamette o forbici), gli aghi, gli strumenti chirurgici usati e non sterilizzati, le trasfusioni di sangue. Le infezioni, in Occidente, in ambito sanitario-ospedaliero, sono drasticamente diminuite a partire dagli anni ’90. Si applicano infatti protocolli di verifica sul sangue donato e infuso: sono stati determinanti la diffusione di aghi e altri strumenti usa e getta, nonché lo screening dei donatori di sangue, al fine di individuare portatori inconsapevoli del virus. Nei Paesi in via di sviluppo, invece, le scarse condizioni igienico-sanitarie e le trasfusioni di sangue infetto sono le cause più comuni di trasmissione del virus.